Cose dell'altro monte

Concludiamo la nostra scoperta dei Monti della Daunia visitandone la parte meridionale: una Puglia insolita e remota che svela un insospettato patrimonio di storia e tradizione in un contesto ideale per il pleinair, una terra accogliente e facile da raggiungere eppure lontana dai percorsi obbligati del turismo frettoloso.

Indice dell'itinerario

Solo pochi mesi fa, con l’accendersi dei colori primaverili, avevamo percorso l’entroterra foggiano per andare a scoprire i paesi alle pendici dei Monti della Daunia. A Lucera avevamo brindato con un bel bicchiere di vino rosso e, forti di un arrivederci davvero sentito, siamo tornati per approfondire la conoscenza con un territorio caratterizzato da numerosi richiami storici e culturali, circondati da una natura ideale per il turista itinerante.
E’ dunque da Lucera che riprende le mosse il nostro viaggio nella parte meridionale del Subappennino Dauno. Ci dirigiamo verso sud sulla provinciale 109 per deviare dopo 11 chilometri sulla 125 e, superato Castelluccio Valmaggiore, puntiamo su Faeto. L’aria frizzante dei suoi 866 metri d’altitudine ci accoglie non appena lasciato lo spazio di sosta su Largo San Prospero: siamo circondati da un’unica grande macchia verde di fitti boschi e ampi prati che rivestono la corona di montagne circostanti, un ambiente incontaminato così come intatta è rimasta la cultura della comunità faetana. Siamo infatti approdati in un’isola linguistica dove si parla – come nella vicina Celle San Vito – il francoprovenzale, una lingua romanza giunta fin qui per remoti motivi militari: nel XIII secolo Carlo d’Angiò inviò le sue truppe a fronteggiare le invasioni saracene, e successivamente diverse decine di soldati si sarebbero stabiliti in questi luoghi mettendo su famiglia. Per conservare questo patrimonio l’amministrazione comunale ha provveduto alla creazione di uno Sportello Linguistico, che tra l’altro ha pubblicato una grammatica e un vocabolario francoprovenzale. Coerenti con la tradizione, sono bilingui anche le insegne stradali che seguiamo per visitare dapprima l’ottocentesca Chiesa Madre e poi la Casa del Capitano, elegante edificio di epoca aragonese in cui ha sede il Museo Etnografico. Sotto l’aspetto architettonico il paese non offre molto di più, ma è il paesaggio naturale a farla da padrone: numerosi sentieri si inoltrano nella riserva di Bosco Difesa dove, nascosti dalla folta vegetazione, troviamo alcuni antichi mulini ad acqua. In compagnie delle guide se ne può visitare uno restaurato di recente, il Mulino Nuovo (i camminatori poco allenati mettano però in conto un’impegnativa salita all’andata e una ripida discesa al ritorno).
Completamente diverso è l’altro importante patrimonio di Faeto, quello gastronomico. Questa è infatti la terra del maiale nero, una razza autoctona che fornisce ottimi prosciutti e salumi ai quali saranno prossimamente riconosciuti i marchi DOP e IGP. In agosto i gustosi cosci ispirano una rinomata sagra, ma chi arriva in autunno può acquistare o degustare le squisitezze locali all’ingresso dell’abitato, presso il ristorante Moreno, dove capocollo, soppressata e salsiccia “a punta di coltello” rappresentano un paradiso precluso ai vegetariani.
Ridiscesi sulla 109, proseguiamo verso sud e in breve incontriamo il bivio per Troia. La cittadina sorge su un’altura di 400 metri che affaccia sul Tavoliere e sulle prime propaggini del Subappennino: una posizione che nel 1019, anno in cui venne fondata, ne faceva un punto strategico per il controllo dei transiti. Divenne inoltre un’importante tappa della Via Francigena, percorsa dai pellegrini che si dirigevano verso i porti pugliesi dell’Adriatico per imbarcarsi alla volta dell’Oriente. Ci accoglie un ampio parcheggio segnalato, posto appena al di sotto della cattedrale; al momento della nostra visita erano in fase di completamento l’impianto di scarico, il rifornimento idrico e l’allaccio elettrico (si consiglia in ogni caso di porre la massima attenzione all’uscita poiché il breve tratto di strada è in forte pendenza). Una scalinata conduce direttamente sul corso, e stretto fra i palazzi troviamo il monumento più rilevante, la cattedrale dell’Assunta. Riportata all’originario candore dai lavori di restauro, esprime tutta la sua bellezza nelle linee architettoniche della facciata e nella preziosa trama del rosone, con undici colonnine disposte a raggiera. Il bronzeo portale d’ingresso a due battenti, che risale al 1120, fu realizzato dal fonditore Oderisio di Benevento che nelle formelle celebrò la storia cittadina; da notare, sulla destra dell’ingresso, un cerchio incavato nella facciata che nel Medioevo veniva utilizzato come unità di misura per il confezionamento del pane. L’interno, semplice e lineare, è a tre navate sorrette da dodici colonne di marmo più una, accostata alla prima per rappresentare Gesù vicino ai dodici Apostoli, mentre in una delle cappelle è esposto un crocifisso ligneo dei primi del ‘700 con la tragica raffigurazione del Cristo in agonia. Dopo uno sguardo alla parte esterna dell’abside, percorriamo la centrale Via Regina Margherita sulla quale sono allineate le chiese di Maria Santissima Mediatrice e di San Giovanni Battista e alcune vecchie dimore nobiliari: tra queste Palazzo d’Avalos, del XVI secolo, in cui hanno sede il Municipio e il Museo Civico, visitabile su appuntamento così come il Museo Diocesano, allestito nell’ex convento delle Benedettine.

Nelle terre dei Guevara
Scendendo da Troia, una distesa di appezzamenti agricoli ci accompagna lungo i 15 chilometri della provinciale 123 fino a Orsara di Puglia, che sorge a 650 metri di quota sulle pendici del Monte San Marco e deve probabilmente il nome agli orsi un tempo presenti nei boschi del circondario. L’area attrezzata della quale usufruiamo è in attesa degli ultimi ritocchi per poter definitivamente disporre di acqua, luce, pozzetto, toilette, parco giochi per bambini e zona picnic con barbecue: è la novità più rilevante rispetto alla nostra precedente visita in occasione della notte dei Fucacoste, l’annuale manifestazione del 1° novembre. Il patrimonio architettonico del paese fa riferimento alle famiglie dei Calatrava e dei Guevara, che si succedettero al governo cittadino dal XIII secolo in poi: a questo periodo risalgono la chiesa di San Pellegrino e il complesso abbaziale dell’Annunziata, entrambi costruiti al di sopra della Grotta di San Michele che è uno tra i siti più antichi della Capitanata dedicati al culto dell’arcangelo e tuttora meta di pellegrinaggi. Il bel portale bugnato dell’abbazia si apre su Piazza Mazzini, dov’è anche il settecentesco palazzo della principessa di Solofra con la quattrocentesca Fontana Nuova, incassata fra due arcate. Nei giardini del vicino convento di San Domenico si trovano i resti delle alte mura turrite poste un tempo a protezione dell’abitato. Siamo nel cuore del centro storico, caratterizzato da strade strette e scoscese sulle quali affacciano bei palazzi d’epoca con decori scolpiti nella pietra.
Usciti dal paese, proseguiamo in direzione Giardinetto su una strada secondaria che taglia un vasto lembo di pianura. Dopo circa 7 chilometri superiamo i massicci ruderi del casino di caccia borbonico di Torre Guevara che oggi, dopo lunghi secoli di completo abbandono, è in corso di ristrutturazione. Qui la strada piega verso destra fino a raggiungere, in prossimità dell’incrocio con la statale 90, l’agriturismo Posta Guevara, un’elegante struttura che vale senz’altro la sosta per gustare pietanze tipiche della cucina contadina. Ci immettiamo quindi sulla statale, storica arteria di collegamento fra la Capitanata e l’Avellinese, e procediamo fino ai 650 metri di Bovino, annoverato tra i borghi più belli d’Italia. Di origini antichissime, il paese fu costruito in strategica posizione sulla valle del torrente Cervaro, ma ciò fu causa di continue distruzioni durante le guerre combattute per il suo possesso. Tutte le dominazioni che vi si sono succedute – romana, bizantina, saracena, normanna, francese – hanno lasciato qui le loro tracce, alle quali si aggiungono le opere volute dai vescovi e dalle famiglie feudatarie, tra le quali ancora i Guevara che dal 1575 governarono ininterrottamente Bovino per tre secoli.
Pur potendo disporre di un’area di sosta attrezzata nei pressi del campo sportivo, per essere ancora più vicini al centro storico parcheggiamo nei dintorni della villa comunale. A pochi metri c’è Corso Vittorio Emanuele, all’estremità opposta del quale si trova la grande porta d’ingresso al borgo antico: da qui partiamo per la visita al castello, costruito dai Normanni su una rocca romana, ampliato da Federico II e infine trasformato dai Guevara in residenza gentilizia. Negli ambienti che si aprono sull’ampia corte interna, sovrastata dalla torre dell’orologio, è ospitato il Museo Diocesano nel quale sono conservate varie reliquie di santi e una spina che si dice provenga dalla corona di Gesù. Dall’adiacente spianata si apprezza una vista completa del prospetto castellano affiancato dall’imponente torre cilindrica, unica testimonianza rimasta della costruzione normanna.
Tornati sui nostri passi raggiungiamo la vicina cattedrale romanica del 1100, anch’essa dedicata all’Assunta: la facciata, opera del 1231 dell’architetto francese Zano, è caratterizzata dal rosone incorniciato da un arco che poggia su due colonne sorrette da leoni accovacciati. Dall’interno si accede al cosiddetto Cappellone di San Marco, costruito nel 1197 per custodire le reliquie del santo. A questo punto non resta che percorrere le erte stradine, dove gli eleganti palazzi sono abbelliti da portali e stemmi in pietra: arriviamo così nell’antico Rione Portella, in fondo a Via Annunziata, e da una terrazza naturale ai margini dell’abitato ci affacciamo sul panorama di un territorio storicamente noto come Vallo di Bovino.

Canto di Natale
In una quindicina di chilometri, fra curve e tornanti, la provinciale 121 sale agli 800 metri di Panni, che fu un altro dei possedimenti dei duchi Guevara. I pastori che per primi abitarono questi luoghi, un tempo ricoperti da una vegetazione ancora più rigogliosa, praticavano il culto del dio silvestre Pan, da cui deriverebbe il nome del paese. Superata la piazzetta alberata all’ingresso dell’abitato, ci inoltriamo con il camper verso la parte più alta; dopo una stretta curva, quando abbiamo ormai l’impressione di ritrovarci imbottigliati in una strettoia, ecco aprirsi un ampio parcheggio proprio al di sotto dei resti della torre medioevale, da cui si domina la pianura del Tavoliere fino al Gargano.
Ancora una manciata di chilometri più a sud, Monteleone di Puglia ci pone dinanzi a un quesito. Il cartello posto all’ingresso del paese dichiara che il Comune è il più alto della Puglia con i suoi 850 metri sul livello del mare; ma avevamo già incontrato un’indicazione simile alle porte di Faeto, e quindi ci chiediamo quale delle due località possa effettivamente vantare tale primato. Purtroppo le nostre domande rimangono senza risposta: interpellate le parti, ognuna si è arroccata – è il caso di dirlo – sulle proprie posizioni. Quanto a Monteleone, appartenuto fino al 1929 alla provincia di Avellino, le sue origini risalgono agli inizi del ‘300 in seguito alle persecuzioni dei valdesi di Provenza, che trovarono rifugio nei territori del Regno di Napoli. Di qualche interesse sono la Chiesa Madre e, nei dintorni, il bosco del Macchione con le sue sorgenti d’acqua sulfurea.
Anzano di Puglia è un altro Comune che dopo aver fatto parte della Capitanata passò ad Avellino con il nome di Anzano degli Irpini, per essere nuovamente annesso alla provincia di Foggia nel 1929. Solo un anno dopo si verificò un violento terremoto che distrusse quasi interamente il paese, ricostruito attorno alla chiesa di Santa Maria in Silice: il precedente edificio romanico sorgeva nel luogo in cui avvenne, intorno alla fine del XII secolo, il ritrovamento di una statua della Madonna.
Siamo giunti all’estremità meridionale del nostro itinerario, in prossimità del confine con la Campania, e perciò torniamo verso Monteleone fino ad incontrare il bivio per Accadia. Per chi arriva in camper è stata realizzata un’area di sosta, ma si trova a 4 chilometri dal paese in posizione isolata, per cui preferiamo inoltrarci nel centro cittadino e, percorse Via Roma, Via Mirabella e Via Borgo, sfociamo in Piazza Ferro dove si concentrano tutti i monumenti più importanti. La Torre dell’Orologio, ornata da un bassorilievo in marmo, ricorda la vittoria nel 1462 di Ferrante d’Aragona, re di Napoli, su Giovanni d’Angiò; lo stesso episodio è menzionato nella targa di bronzo della contigua fontana monumentale. Sulla destra si apre il portale d’accesso al Rione Fossi, le cui grotte testimoniano la frequentazione di questi luoghi fin dalla preistoria: l’intero quartiere andò distrutto nel sisma del 1962, e oggi procedono i lavori di restauro e riqualificazione con la finalità di crearvi un moderno albergo diffuso. Da qui abbiamo modo di osservare in lontananza l’abitato di Sant’Agata di Puglia, abbarbicato sul fianco di una collina coronata dalla mole del Castello Imperiale: dovrebbe essere la nostra prossima tappa, fra le più interessanti dell’intero comprensorio dauno per le notevoli ricchezze monumentali, ma siamo costretti a rinunciare poiché le forti precipitazioni dei giorni precedenti hanno reso quasi impraticabile la ripida strada d’accesso. Facciamo dunque rotta verso Deliceto, le cui case si stringono intorno alla mole quadrangolare del castello. Sapevamo che era in corso di allestimento un’area attrezzata per i camper, ma all’arrivo scopriamo che il progetto è finito nel nulla a seguito di un cambio di destinazione d’uso del terreno; ci viene però consigliato di parcheggiare in Via Arena Cavata, dove è possibile rifornirsi d’acqua presso una fontana pubblica.
Lungo il ripido corso principale del borgo, risalente al Medioevo, troviamo la Chiesa Madre in stile tardobarocco che conserva un’interessante statua lignea della Vergine, la seicentesca chiesa di Sant’Anna e Morti, con il Museo Diocesano, e la chiesa dell’Annunziata, che risale al IX secolo ed è il più antico edificio religioso del paese. Nello stesso periodo fu iniziata la costruzione del castello, che ci si para dinanzi al termine della salita: il complesso, da poco restaurato, è introdotto da una torre quadrangolare di epoca normanna, mentre sono angioine le due torri cilindriche poste alle sue spalle. Varcato l’ingresso, sormontato dallo stemma dei Piccolomini d’Aragona, si accede al vasto cortile, al centro del quale si trova una grande cisterna ottagonale; si attraversano poi gli alloggi dei soldati, le scuderie e le stanze nobiliari per raggiungere le terrazze, con ampia vista sull’abitato e sui dintorni. E proprio nelle vicinanze, in un ampio bosco dotato di una bella area picnic, sorge il santuario della Madonna della Consolazione, noto per essere stato il luogo in cui alla metà del ‘700 Sant’Alfonso Maria de’ Liguori scrisse il celeberrimo inno natalizio Tu scendi dalle stelle.

Storia e preistoria
Un intreccio di strade che attraversano le campagne (dapprima la provinciale 103, poi la 102, la 120 e infine la 105) ci porta verso le quote più basse, ai margini della pianura, fino ad Ascoli Satriano. Fu qui che nel 279 a.C. le legioni dell’Urbe vennero sconfitte dall’esercito di Pirro, il sovrano della regione balcanica dell’Epiro chiamato in soccorso da Taranto contro l’espansione romana, ma le perdite del contingente greco furono tali da far nascere l’espressione “vittoria di Pirro” per indicare una battaglia vinta a un prezzo troppo alto. Le testimonianze monumentali di quell’epoca hanno perso la loro omogeneità in quanto sculture, epigrafi e lapidi vennero più tardi reimpiegate nella costruzione del centro storico, mentre l’era preromana ha fornito diversi elementi di studio: già mille anni prima di Cristo il territorio era stabilmente occupato da comunità di cacciatori, pastori e agricoltori, come dimostrano alcuni dei numerosi reperti conservati nell’interessante Museo Civico Archeologico intitolato a Pasquale Rosario. A questo studioso della storia locale, un veterinario con la passione per le antichità vissuto fra l’800 e il ‘900, è dedicato anche il Parco Archeologico dei Dauni, una vasta area ai margini della cittadina in cui si osservano abitazioni del IV secolo a.C., sepolture (fra cui le tombe dette del Guerriero, della Principessa e delle Coppe di Vetro) e un santuario, la cui straordinaria pavimentazione a mosaico è realizzata con ciottoli di fiume.
Per continuare la visita del borgo si può lasciare il v.r. nel parcheggio antistante l’area archeologica, ma la pendenza del terreno rende forse più indicato lo spazio pianeggiante su Via Estramurale Pozzello. Dopodiché non resta che andarsene piacevolmente a zonzo tra chiese e palazzi che costellano il centro storico, un millenario patrimonio d’arte e di architettura che comprende il Palazzo Ducale, trasformazione cinque-settecentesca del castello normanno, e la cattedrale della Natività di Maria Santissima, della metà del ‘400, i cui affreschi nella navata di mezzo, le tele di scuola napoletana e il busto in argento del patrono San Potito sono tra gli elementi più significativi.
Per una conoscenza esaustiva della zona manca ancora all’appello un importante sito archeologico che continua a regalare agli studiosi entusiasmanti scoperte, la Villa Faragola. Seguendo la segnaletica per Ordona, prima di un passaggio a livello svoltiamo a destra sulla provinciale 85 e dopo 4 chilometri siamo dinanzi all’ingresso del sito, che si estende su circa 2.000 metri quadrati. La visita (su appuntamento) ci introduce agli scavi, ancora in corso, che hanno portato alla luce nuclei abitativi risalenti a epoche diverse: tra questi una lussuosa residenza del IV-VI secolo nella quale, oltre alle terme, spicca un’ampia sala da pranzo arredata con splendidi mosaici di marmi policromi, pasta vitrea e avorio che rivestono anche l’eccezionale stibadium, un grande divano semicircolare in muratura costruito intorno alla vasca sottostante.
E siamo ormai prossimi all’incrocio tra la A16 Napoli-Bari e la superstrada Foggia-Potenza, che agevolano un rapido rientro: non prima però di un’ultima sosta a Candela, che ai tempi della transumanza rappresentava il punto d’arrivo del tratturo proveniente da Pescasseroli. Il paese, adagiato come un presepe su due collinette a 500 metri di altitudine, offre le principali testimonianze del suo passato nel rione Cittadella, che raggiungiamo salendo a piedi lungo le ripide stradine. Lungo il tragitto incontriamo il palazzo rinascimentale della casata genovese dei Doria, che ottenne il feudo da Carlo V e lo governò per quasi tre secoli, l’Arco della Candelora, sovrastato da un’immagine mariana, e la Chiesa Madre del ‘400, con un bellissimo coro ligneo. Ci rimettiamo in marcia con qualche rimpianto e un occhio al calendario: le feste dell’autunno e le ricorrenze decembrine si avvicinano, e per tornare in Daunia – come si suol dire – non mancherà occasione.

Testo e foto di Emilio Dati

PleinAir 459 – ottobre 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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