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Il nostro viaggio per musei insoliti e particolari continua con tre proposte. La prima, attraverso la storia della carta, non poteva che condurci a Fabriano. La seconda, presso Modena, ci svela il mondo affascinante dei pesi e delle misure di tutti i tempi. La terza, più tagliente , ci racconta a Milano la storia del rasoio.

Indice dell'itinerario

Secoli di carta
Il più antico documento scritto che dimostra l’attività cartaria a Fabriano è un registro su pergamena conservato presso l’Archivio Storico del Comune di Matelica: vi si attesta l’acquisto di carta bambagina fabrianese da parte di un notaio nel 1264…

Il lungo “viaggio” della carta era iniziato nella lontanissima Cina forse intorno al 105 d.C.; i fogli allora si ottenevano da fibre vegetali come canapa, bambù e paglia di tè e riso, macerati e poi battuti nei mortai per produrre la pasta. Dalla Cina la via della carta mosse verso occidente passando per la Corea e il Giappone fino a Samarcanda, dove gli Arabi appresero l’arte e la diffusero in tutto il Medio Oriente e il bacino del Mediterraneo, da Bagdad a Damasco, fino al Cairo e da lì all’Europa.
All’inizio del XIII secolo, i livelli qualitativi della produzione cartacea della città marchigiana avevano già raggiunto standard elevatissimi. Nel tempo la carta fu perfezionata e rinnovata, e lentamente prese il posto della costosa pergamena. Non poco peso in tale sviluppo ebbe l’avvento della stampa, dal XV secolo. La domanda di un supporto scrittorio in grande quantità ed economico crebbe vertiginosamente, e Fabriano seppe rispondere a tale richiesta confermandosi come uno dei maggiori centri europei di produzione di carta bambagina.
Nel museo, ambientato nell’antico complesso monumentale di San Domenico, si può assistere ancora oggi ai processi di produzione manuale della carta, con vecchi macchinari che ripropongono le atmosfere di un’antica gualchiera medioevale.
Si vede il lavorente immergere la forma (tela metallica sostenuta da una cornice di legno) nel tino, ed estrarre poi la pasta da distribuire in modo uniforme sulla tela stessa; in questo modo le fibre si saldano e nasce il foglio. Passata al ponitore, la forma viene appoggiata su uno strato di feltro di lana che favorisce il distacco del foglio dalla tela. Sovrapponendosi gli uni agli altri a strati alterni, feltro e fogli formano così una pila compatta o posta, che viene sistemata nel torchio a vite e pressata. In questo modo si effettua la prima parte del processo di disidratazione dei fogli e il loro distacco dai feltri. I fogli vengono quindi appesi agli stendaggi per l’essiccazione e collati, cioè immersi in un bagno di gelatina animale che garantisce resistenza, lunga durata e impermeabilità interna all’inchiostro.
L’immersione in gelatina è stata una delle due grandi innovazioni apportate dai maestri cartai fabrianesi; prima, invece, si usavano per la mollatura sostanze amidacee che deterioravano i fogli molto velocemente, causando il formarsi di muffe. L’altra grande novità fu l’introduzione della pila idraulica a magli multipli, che si sostituì alla mano dell’uomo sfibrando meccanicamente gli stracci da cui si otteneva la poltiglia per la pasta da carta.
Una sezione del museo è dedicata alla filigrana, rivoluzionaria innovazione fabrianese per imprimere nella carta immagini o marchi visibili solo in controluce. E’ straordinario che questa tecnica fosse conosciuta a Fabriano ancora prima del 1200. Di peso e di misura
Campogalliano, vicino Modena, è un antico centro dove l’economia locale, soprattutto agricola, impose sin dal secolo scorso operazioni quotidiane di pesatura e la nascita di numerosi tecnici specializzati. Dunque questo singolare museo non poteva che nascere qui.

Gli strumenti da misurazione esposti sono oltre 500 su un patrimonio di oltre 3000 oggetti, e coprono 700 anni di storia. Si vedono bracci antichi, aste in ottone graduate, piatti sospesi su supporti in ferro, bilance pesamonete dove s’incurvavano banchieri e bottegai dei secoli andati per determinare il rapporto metallo-valore.
Visitando questo insolito museo, unico in Italia, probabilmente si incomincerà a guardare gli oggetti con un occhio più critico, immaginandone massa e peso specifico; o ci si fermerà a riflettere su fenomeni come la forza di gravità, che varia da luogo a luogo, alterando i responsi di bilance e bilancini.
Una comoda poltroncina pesapersone chiarisce subito il concetto. Sedendocisi sopra, un display mostra il peso terrestre e quello che si avrebbe su Luna e Giove, dove la forza di gravità è rispettivamente molto minore e molto maggiore. In pratica, chi pesa 86 kg sulla terra, ne peserebbe 14 sulla Luna e 227 su Giove.
Il museo è un viaggio in culture vicine e lontane, attraverso sale e corridoi stipati di stadere agricole, bilancini orientali per pesare l’oppio, bascule giganti del periodo risorgimentale, bilance a pendolo pesalettere, vecchi gioghi da mercato in ferro, bilance analitiche con lettura a proiezione della cala… E si imparano un sacco di cose curiose. Per esempio, che gli egizi rappresentavano nel Libro dei Morti la psicostasia, una bilancia dove una piuma di struzzo collocata su un piatto faceva da contrappeso al cuore del defunto, sistemato sull’altro piatto: se il cuore era senza peccato, era più leggero della piuma. Ai tempi dell’Inquisizione, invece, il tribunale usava la bilancia per valutare il peso delle presunte streghe: se pesavano meno di quanto suggeriva il loro aspetto fisico, venivano arse vive.
Addentrandosi nelle leggi del peso specifico e nelle sue strane variabili, si scoprirà che uno dei primi a farne le spese fu Gerone di Siracusa; grazie ad Archimede, il sovrano scoprì che la sua corona non era d’oro ma in lega di metalli. Il celebre matematico arrivò a questa conclusione dopo aver scoperto che un oggetto immerso nell’acqua non pesa come nell’aria.
Anche oggi i dubbi sull’unità di misura del peso permangono, dato che il chilogrammo è l’unica grandezza che non si riferisce a costanti universali e si basa semplicemente su un’unità di massa internazionale, costruita alla fine dell’Ottocento in lega di platino e iridio. Il prototipo è conservato al Bureau International des Poids et Mesures di Sèvres in Francia, ed è la dimostrazione che pesi e strumenti di misurazione dovranno confrontarsi ancora a lungo, prima che si giunga alla chiarezza scientifica. Ce lo conferma Richard Devis del BIPM di Sèvres, il quale ha ammesso che ogni anno le copie del prototipo aumentano di una frazione di microgrammo rispetto all’unità campione. Non ce ne preoccupiamo: in fondo, sapere che il mistero aleggia ancora intorno a bilance, forza di gravità e unità di misura, rende in qualche modo più avvincente la visita al museo. A onor del mento
Una collezione privata di antichi e preziosi rasoi è aperta al pubblico nella via più esclusiva di Milano. E fa una certa impressione ripercorrervi la storia dell’uomo sul filo di una lama .

Ci sono molte strade per ripercorrere la storia dell’uomo. Quella intrapresa dai Lorenzi è sicuramente molto curiosa. In un antico palazzo milanese di Via Montenapoleone sono raccolti più di duemila rasoi e accessori legati alla pogonotomia (l’arte di fare la barba), in uso negli ultimi due secoli (per informazioni e per prenotare la visita chiamare lo 02/76022848, oppure rivolgersi al negozio G. Lorenzi al numero 9 della stessa via; l’ingresso è libero).
Una vera e propria passione di famiglia, che un albero genealogico appeso alla parete testimonia risalire a molto lontano. «Mio padre ha cominciato nel 1929 con il negozio a Milano, che ancora porta il suo nome» racconta Franco Lorenzi, il primogenito. «Affilava le forbici delle signore e consigliava le lame per una buona rasatura agli uomini, aveva appreso tutti i segreti del mestiere da mio nonno che era coltellinaio. A volte capitava che il rasoio di un cliente non funzionasse più correttamente: lui allora lo ritirava, lo metteva in un cassetto e gliene vendeva uno nuovo. Negli anni mi sono ritrovato con un numero enorme di pezzi di ogni tipo e misura, e così ho deciso di fare il collezionista». La raccolta si è ingrandita successivamente con gli acquisti fatti in tutto il mondo e gli scambi con altri appassionati del settore, arricchendosi di esemplari preziosi. L’esposizione segue un itinerario storico, a partire dai materiali primitivi usati per la rasatura come la selce levigata, il bronzo e il ferro. Passando poi ai primi rasoi a mano libera con la lama a coltello (quelli che i barbieri usano in molti film western) che grazie all’abilità degli artigiani si adattavano sempre più a ogni tipo di pelo e di pelle. Fu solo nel 1847 che un inventore inglese ebbe l’idea di mettere la lama perpendicolare all’impugnatura dando vita al primo rasoio ‘a zappa”, destinato a divenire popolarissimo, dai rasoi di sicurezza a quelli “usa e getta” brevettati nel 1895 da King Camp Gillette, fino ad arrivare all’epoca moderna. «Nella mia collezione c’è di tutto. Qui dentro c’è la vita di mio padre, la mia e adesso quella di mio figlio» aggiunge Franco Lorenzi, la cui raccolta vanta migliaia di modelli. «Ci sono anche curiosità: dal rasoio che si usa con un pollice per chi ha perso le dita a quello da tasca pieghevole. C’è il tipo utilizzato nei manicomi, con la lametta che entra ed esce solo se aperta da chiave, custodita dal secondino; e il rasoio di Bartali e la lama di Coppi, in competizione anche in queste cose. Tra i modelli da donna c’è il primo radi e getta al femminile del 1918. Ci sono poi i rasoi settimanali: nelle confezioni si trovano sette lame, una per ogni giorno, lanciati sul mercato quando si capì che la parte tagliente si arrotava da sola, riprendeva il filo se lasciata riposare». Fra gli oggetti esposti si scoprono decine di bizzarrie: il rasoio con la lampadina incorporata per vedere meglio, quello che si carica a molla o con la pompetta nel manico per affilarlo e la calamita per raccogliere le lamette che cadono senza rischiare di tagliarsi e facendo salve le unghie. Su un leggio in legno, neanche a dirlo a forma di rasoio, c’è un libro dove i visitatori possono lasciare impressioni e commenti. La prima pagina riporta il pensiero scritto da Franco Lorenzi il giorno dell’inaugurazione, nel 1996, che si conclude così: “Deve essere bello realizzare i nostri sogni. Io credo sia troppo difficoltoso ricostruirli interamente. Mi reco alla Collezione ed ecco per incanto tutto il mio sogno materializzato, completato anche dai colori. E sussurro: sono un uomo veramente fortunato.”

PleinAir 316 – novembre 1998

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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