Con quel dialetto un po' così

Piantata di fronte alle scogliere del Sulcis, l'isola di San Pietro è anche un'enclave etnica, linguistica e gastronomica. Un insolito pezzo di Liguria per una insolita vacanza in camper: sullo stesso mare e tra le stesse bellezze della Sardegna occidentale.

Indice dell'itinerario

Ma siete fissati con le isole, ci apostrofa benevolmente un amico. Può darsi; se però scegliamo di trascorrervi i periodi di ferie forzatamente brevi, il motivo è soprattutto pratico. Le isole sono microcosmi che è possibile esplorare con sufficiente attenzione anche in pochi giorni. E poi rappresentano un paradigma perfetto per il turista in camper. Gli forniscono una meta da raggiungere, cioè il movente finale, ma anche un territorio che deve essere apprezzato continuando a muoversi. Lo ospitano in un habitat finito dove il pleinair non lascia tracce, mentre lo sfruttamento e l’urbanizzazione stagionali vi innescano il degrado. Gli offrono infine scrigni di preziose diversità geografiche, biologiche e culturali, che valgono comunque un viaggio.
A queste ragioni per così dire oggettive se ne aggiungono altre personali. Chi ama la tranquillità, la genuinità dei rapporti umani e il clima delle mezze stagioni, trova nelle isole il rifugio ideale che il sole mitiga tutto l’anno e che gli isolani, passata la sbornia balneare, tornano a vivere con sincerità.
Questa volta ce ne andiamo sull’isola di San Pietro, in Sardegna: imbarco a Piombino, navigazione notturna open deck; trasferimento via terra fino a Portoscuso; quindi trenta minuti di traghetto locale. In meno di 20 ore da Roma, compresa qualche sosta tecnica, approdiamo a Carloforte, capoluogo e unico centro urbano dell’isola.
E’ l’ultima decade di aprile e anche il periodo ha le sue giustificazioni: oltre il piacere del viaggio fuoristagione, come si diceva, l’opportunita di concludere in bellezza il soggiorno sull’isola con una visita di Cagliari agli inizi di maggio, proprio nei giorni della celeberrima sagra di Sant’Efisio e dell’annuale fiera campionaria sarda.
Avendone il tempo, ovviamente, si può incrementare il programma a piacimento: basta dare un’occhiata alla carta stradale, e ai vecchi numeri di PleinAir, per rendersi conto di quanto ci sia da fare e vedere nel raggio di cinquanta chilometri. Ma qui ci limitiamo a guidarvi sui nostri passi.

Il pesto col pomodoro
Se non avete come noi una zia genovese ottima cuoca, dovete fidarvi sulla parola: solo a Carloforte si gusta un pesto buono quanto il suo. Vuoi per la suggestione della novità, vuoi per quell’aggiunta di pomodoro che lo addolcisce. Altrettanto gustose e “genovesi” ritroviamo la farinata di ceci, la minestra di verdure e… l’inflessione dialettale. Sì, perché l’isola è sarda in tutto, ma dal 1736 gli abitanti sono liguri, discendenti dei circa 400 coloni che per primi vi si insediarono stabilmente su concessione del Re di Sardegna Carlo Emanuele III di Savoia (donde il nome del capoluogo). E non hanno ancora perduto i tratti dell’origine, seppure sbiaditi dal tempo e ormai disancorati dalle attività marinare più tradizionali.
Chiuse le miniere del Sulcis e alcune sulla stessa isola, i carlofortini hanno smesso di trasportare minerali per mare, di coltivare le saline, e di costruire navi. Pochi si dedicano ancora alla pesca, e pochi all’agricoltura, i più si sono riconvertiti al terziario. Anche a San Pietro, insomma, le nuove miniere si chiamano turismo, commercio e seconde case. Motivo di più per non andarci durante i mesi canonici: quando è più facile incontrarci il collega d’ufficio che il nipote di un mastro d’ascia; e quando camperisti e campeggiatori sarebbero visti come intrusi, magari costretti pro bono pacis a rintanarsi nell’unico campeggio esistente, aperto da giugno a settembre.Scogliere e sabbia
Appena sbarcato che fa il camperista? Va in cerca di un buon posto dove pernottare e se c’è ancora luce fa un giro di ricognizione per le strade dell’isola, tanto da orientarsi. E così anche noi scopriamo che ad aprile di posti ce n’è più d’uno (vedi Buono a Sapersi) ma che conviene fare base a Carloforte, spostandosi ogni mattina e tornando all’imbrunire: per mescolarsi allo struscio, fare conoscenze e cambiare ristorante ogni sera.
Cominciamo la nostra esplorazione da ovest. Quindici chilometri di un’ampia e panoramica asfaltata conducono al grande parcheggio di Capo Sandalo, sotto l’omonimo faro. A spiegare l’apparente inutilità di tanta arteria ci pensano ben presto i pullman dei turisti pendolari che vengono a dare un’occhiata al panorama. Dal parcheggio si può arrivare al mare per un evidente sentiero gradonato; ma è ancor più gratificante allontanarsi verso il ciglio della scogliera, dove nidificano rumorosi gabbiani e volteggiano i falchi della regina, veri padroni di questo territorio. Raggiungendo a piedi anche il faro (ufficialmente off limits), ci si affaccia da vertiginose pareti verticali, e poi si scende alla sottostante Cala Fico, immeritatamente decantata per i nostri gusti. E’ compresa in una riserva di protezione faunistica gestita dalla LIPU, ma un orribile villino e un eccesso di cemento vi spezzano l’incanto delle immagini ufficiali.
Costeggiando una cava, alcune miniere abbandonate e qualche lottizzazione, la strada dell’andata riporta al bivio di Carloforte, sul limitare delle saline. Da qui, però, girando a destra l’asfalto serve anche la costa meridionale e le principali spiagge dell’isola. La Caletta, la più lontana, è quella più decantata: che vuol dire la più aggredita dalle residenze stagionali, compreso il ricordato e unico campeggio, sistemato sotto un bosco di eucalipti (Camping La Caletta, tel. e fax 0781 852112). Arenile a parte non c’è niente che invogli a passeggiare tra recinti e costruzioni, disseminati fin sulla Punta dello Spalmatore; perciò dietrofront!
Solo quando la scogliera torna inaccessibile le case scompaiono e gli spazi si aprono. Come nella strepitosa sequenza di belvederi intorno al Golfo della Mezzaluna, tutti raggiungibili a piedi dal parcheggio sterrato de La Conca. Questa è la ciliegina: un anfiteatro naturale di alte falesie traforate, che da solo regala lunghe contemplazioni. Ma per gustare tutta la torta occorre spingersi fino alla piscina naturale di Punta Fradelin, seguendo comodi viottoli tra la macchia e i campi; e aggirarsi sulle formazioni colonnari di Punta Grossa come anche tra i vari bunker, vuoti monumenti alla stupidità della guerra, che offendono le postazioni più avanzate.
Quando si ritorna sull’asfalto si scende in breve alla quota delle spiagge: in successione la Lucchese, la Bobba e la Guidi, decisamente le più coreografiche. Le infila un’altra piacevolissima escursione che richiede un paio d’ore, senza contare il possibile bagno (ma occorre parcheggiare il mezzo lungostrada), e che in più dispensa varie viste su Le Colonne, i due faraglioni simbolo dell’isola.
Il lungo e basso arenile che si estende a est di Punta Nera fin quasi alla città, lascia invece indifferenti, se non proprio allarmati al pensiero di quello che può diventare d’estate.
In compenso, la strada che lo lambisce costeggia anche le Saline; vale parcheggiare nei pressi del cimitero, prendere il binocolo e avvicinarsi a piedi alle vasche: all’imbrunire sono garantiti piacevoli incontri con anatre, aironi e fenicotteri.Poi si rientra a Carloforte, passando sotto una delle torri originarie oggi sede di un osservatorio astronomico.
A questo punto, se non è possibile fare il giro dell’isola in barca (sono quasi tutte in manutenzione), non resta che affacciarsi da terra anche sulla costa settentrionale. Per questo si prende la strada che dal porto conduce a La Punta. Qui si trovano due vecchie tonnare (vedi approfondimento “Tonni a oriente”), due piattaforme rocciose che si protendono in acqua e l’insenatura di Calalunga, il tutto assediato da una estesa piantagione di muri. C’è comunque da passeggiare e da ritagliarsi qualche angolo di relax, almeno fin quando non vengono a noia i cartelli di proprietà privata.

Effetto città
Viaggiando secondo natura , la visita dei centri urbani si rimanda ai momenti di brutto tempo o a prima di partire: quando si deve pur fissare un ricordo o fare acquisti (a San Pietro, souvenir d’obbligo sono tonno e panetti di fichi).
Ma Carloforte è essa stessa un’isola, oltre che la nostra base logistica per sette giorni. E non tarda ad imporsi: per come è fatta e per quello che offre. Se le cittadine della Sardegna di norma non brillano quanto a rigore urbanistico e fascino architettonico, questa rientra tra le eccezioni. Non soltanto perché carrugi (vicoli) e ciasse (piazze) ricordano piuttosto la Liguria, ma perché il decoro delle abitazioni e degli spazi pubblici dà tono e qualità alla vita: al mercato, alla siesta nella piazza-salotto della Repubblica, al passeggio sul lungomare alberato… Insomma, andarsene in giro come carlofortini è un vero piacere (e a noi sembra di avere a fianco la zia).
A distanza di quasi tre secoli l’impianto urbano a scacchiera, fondato insieme a un giro di mura e alla chiesa madre di San Carlo dall’ingegnere militare Augusto De La Vallée, è ancora oggi piuttosto integro. Perciò si può andare a naso e anche sbagliare strada, vedendo tutto ugualmente e da più angolazioni. Solo come ripasso finale conviene prima portarsi in alto, dove si trovano le fortificazioni superstiti (nei bastioni della rocca è stato allestito un piccolo museo), e poi pian piano ridiscendere.
Al solito, per saperne di più ci vuole il sussidio di una guida. Noi vi raccomandiamo soltanto di entrare nell’oratorio di Via XX Settembre dedicato alla Madonna dello Schiavo, la statua in tiglio nero che orna l’altare. Quella era la polena della nave che nel 1803 ricondusse trionfalmente a casa i 933 isolani rapiti cinque anni prima e deportati in Tunisia dai pirati barbareschi. Una bella storia a lieto fine è proprio quel che ci vuole per accomiatarsi dall’isola con la voglia di tornarci.

PleinAir 369 – aprile 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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