Come gli indiani

Ci vogliono il treno, l'idrovolante e la canoa per raggiungere, nell'estremo nord del Québec, l'accampamento dei Montagnais: uno degli undici popoli autoctoni canadesi che sono riusciti a resistere all'omologazione culturale conservando e diffondendo le proprie tradizioni. Un'esperienza unica negli indimenticabili scenari del Canada settentrionale, un soggiorno per pochi privilegiati in cui condividere la vita quotidiana dei nativi

Indice dell'itinerario

Alziamo lo sguardo verso un cielo che giura di voler piovere e ci preoccupiamo un po’, lo abbassiamo sull’orologio e ci rendiamo conto che sarà ancora lunga prima di salire sul treno. Mai come questa volta la fila di persone che abbiamo davanti non ci affligge. Il convoglio non partirà in orario, ma non è un problema: cosa importa degli orari, quando si ha l’infinito davanti a sé?
Siamo pronti per un viaggio davvero speciale che da Sept-Îles, lungo la costa sud-orientale del Québec, ci porterà a Schefferville, verso nord, a bordo di un treno che percorrerà oltre 600 chilometri nella tundra senza incontrare nemmeno una stazione, eppure fermandosi più volte in mezzo al nulla per far scendere i pochi passeggeri diretti ai territori di caccia e pesca. Un’immensa solitudine che sembra quasi una metafora della storia dei nativi americani tuttora presenti in questo immenso territorio: anche loro, come molti altri popoli autoctoni, hanno rischiato di smarrire la loro identità nello sconfinato deserto dell’omologazione culturale dell’Occidente, ma prima che fosse troppo tardi hanno saputo impegnarsi nel recupero e nella promozione della loro civiltà.
Ci accomodiamo nell’ultima delle tre carrozze, una delle quali destinata al trasporto dei bagagli. Osserviamo le persone intorno a noi e ci rendiamo conto che i nativi si conoscono tutti, ma il treno trasporta anche “gente di fuori”, guide per i cacciatori che arriveranno in aereo più tardi, ricercatori che si occupano di monitorare l’ecosistema della zona, qualche raro viaggiatore canadese. E poi ci siamo noi, estranei fra gli estranei, oggetto di curiosità perché diversi anche dai pochi stranieri presenti su questo convoglio.
Il fischio del locomotore annuncia che stiamo per muoverci e lentamente il convoglio inizia la sua marcia. In dodici ore di viaggio, dietro i finestrini vedremo sfilare ruscelli impetuosi, laghi immobili, acquitrini annebbiati dalle zanzare e distese senza orizzonte, dimora ancestrale delle mandrie di caribù e dei lupi solitari. Quando fu costruita, la ferrovia serviva a trasportare minatori e merci; oggi viene utilizzata principalmente dagli abitanti di questo grande nord per rifornirsi di tutto quanto è necessario alla loro sopravvivenza.
S’intrecciano conversazioni in vari idiomi, lingue autoctone, inglese, francese, mentre le donne cucinano con il forno a microonde di cui la carrozza è equipaggiata. Al di là dei vetri il paesaggio cambia lentamente, la taiga si perde nella tundra, la pioggia s’arrende all’azzurro fra arcobaleni da capogiro, per poi prendersi la rivincita più tardi confondendo il cielo con i laghi e nascondendo le basse conifere dietro sipari di nebbia e improvvisi nubifragi. L’indiano seduto al nostro fianco non resiste a lungo alla curiosità, e ci chiede in inglese da dove veniamo e come mai ci troviamo su quel treno. Soddisfatto della nostra spiegazione, Roger comincia a raccontare. «Noi nativi del Québec apparteniamo a undici diverse nazioni, ognuna con caratteristiche proprie e una storia, una lingua e una geografia particolari». Si interrompe per guardare dal finestrino uno spettacolare arcobaleno che si è appena acceso su un paesaggio disseminato di laghi d’ogni forma e dimensione. «Conoscete senz’altro gli Inuit, gli uomini dei ghiacci – continua – ma esistono altre dieci nazioni: gli Algonquin delle foreste dell’ovest, gli Atikamekw dei grandi laghi del sud, i Micmacs sul versante meridionale del Golfo di San Lorenzo e noi, i Montagnais, che occupavamo i territori lungo il versante settentrionale del golfo. E poi ci sono gli Abenaki, i Maliseet, i Mohawk, gli Huron, e i Naskapi, che sono i più a rischio: ne sono rimasti circa 800 e abitano quasi tutti a Kawawachikamach, a poca distanza da Schefferville».
«Anche gli Huron un tempo erano molti di più» interviene un signore che ha seguito la nostra conversazione. Regent Garihwa Sioui è un huron di Wendake e gestisce un sito tradizionale dove illustra il modo di vivere del suo popolo. «Wendake – ci dice – si trova nei pressi della città di Québec ed è l’unico villaggio rimasto dei venti che esistevano un tempo».
Regent sembra sapere molte cose interessanti, e lo incoraggio a raccontarci le sue esperienze nel centro di soggiorno che ha fondato ormai vent’anni fa. «Abbiamo capito che se vogliamo sopravvivere alla modernità dobbiamo salvare il nostro passato e tenerlo attuale. A Tsonontwan viviamo in capanne tradizionali, scaldate da vecchie stufe in ferro. Di giorno accompagniamo i nostri ospiti a riconoscere le tracce degli animali o i frutti del bosco, la sera insegniamo loro come costruire i sacri amuleti di buon augurio. Nel frattempo offriamo piatti tipici della cucina huron».
Il treno corre, il sole è già tramontato e fra poco il buio si impadronirà del paesaggio; nella carrozza l’animazione del pomeriggio è ormai scomparsa, rimpiazzata da una sonnolenta atmosfera, mentre noi continuiamo a parlare sottovoce con Roger fra antiche storie di caccia e notizie d’attualità sulla condizione dei nativi. E’ notte fonda quando giungiamo a Schefferville, un tempo cittadella mineraria e oggi, dopo la chiusura degli impianti per l’estrazione del ferro, poco più di un villaggio fantasma che sopravvive grazie all’indotto del vicino aeroporto turistico. I 220 abitanti non sanno che farsene, ma per i cacciatori che arrivano fin lassù dagli Stati Uniti e dall’Europa è essenziale: da qui decollano gli idrovolanti che li trasportano ai lodge costruiti sulle rive dei fiumi, basi di partenza per le battute al caribù, all’alce e a varie specie di uccelli.

Il villaggio dei Naskapi
Il mattino successivo ci organizziamo per visitare il villaggio che ci è stato suggerito sul treno, Kawawachikamach, dove arriviamo rapidamente a bordo di uno scuolabus che, quando non è impegnato per il trasporto degli scolari, funge da mezzo pubblico. Qui si parla ancora una lingua unica nel suo genere, con una forma di scrittura legata a un tipo di alfabeto i cui simboli ricordano le lettere runiche.
Ci accoglie con naturale cortesia Einish, che si occupa di tutelare l’identità culturale del popolo naskapi. Obiettivo primario delle autorità è quello di preservare appunto la lingua, e per questo è stato addirittura creato un software per personal computer in grado di trasformare le lettere dell’alfabeto latino nei simboli di questo idioma. Non ci occorre molto tempo per sentirci a nostro agio: Einish comprende subito che siamo sinceramente interessati ai suoi racconti e ci accoglie nella sua casa, dove pranziamo con la famiglia. Più tardi visitiamo la scuola e gli alunni ci offrono un delizioso saggio di danze tribali. Non facciamo in tempo ad accennare al nostro interesse per l’artigianato locale che già ci troviamo all’interno del centro per la produzione di pantofole e manufatti all’uncinetto: le donne più anziane del villaggio, depositarie di abilità ancestrali, guidano le giovani nell’apprendimento di un lavoro a metà fra arte e mestiere.
Durante il ritorno a Schefferville, nel tardo pomeriggio, ci fermiamo sul sito della miniera grazie alla quale fu costruita la ferrovia e nacque il piccolo insediamento. Una successione di basse colline di terra rugginosa e qualche lago artificiale è tutto ciò che resta di quella che fu una delle attività più redditizie del Québec.

In canoa nella tundra
E’ il momento di partire verso la nostra principale destinazione: un villaggio indiano qualche centinaio di chilometri più a nord, lungo il George River. Decolliamo a bordo di un vecchio idrovolante, sorvolando miglia e miglia di tundra dove scorgiamo mandrie di caribù che si spostano in cerca di cibo. Abbassandosi di quota, il pilota ci indica un puntino scuro nei pressi di un boschetto di abeti rinsecchiti. «E’ un orso» afferma con sicurezza, ma a noi sembra semplicemente un grosso cespuglio appoggiato al tronco. Cerchiamo di osservare con più attenzione, ma non riusciamo a vedere altro. Il pilota se ne accorge e scende ulteriormente, forse oltre il limite di sicurezza, puntando decisamente il muso dell’aereo verso l’albero: quando siamo a un centinaio di metri di distanza, a un’altezza inquietante da terra, il cespuglio improvvisamente prende vita e inizia a correre veloce, via dal frastuono delle eliche. «E’ un bel maschio – osserva il pilota – ce ne sono abbastanza in questa zona». Mentre parla impenna l’aereo per tornare alla quota di volo, e il nostro stomaco va in momentaneo subbuglio. Quando sotto di noi compaiono le acque vorticose del George River inizia la procedura d’atterraggio, e poco dopo tocchiamo la superficie del fiume con insospettabile delicatezza.
Subito accolti in un lodge per cacciatori, incontriamo Serge Ashini, un montagnais che ha impegnato buona parte delle sue risorse economiche in un ambizioso progetto di recupero delle tradizioni dei suoi antenati e di difesa dell’ambiente del Québec settentrionale, in particolare dei principali corsi d’acqua che lo attraversano. Ogni estate organizza eventi particolari invitando ricercatori, ambientalisti, universitari e giornalisti in uno sperduto accampamento da lui costruito in un luogo particolarmente importante per questo popolo, dove un istmo di roccia si protende nel fiume fin quasi a metà della sua larghezza. E’ l’unico punto guadabile senza troppa difficoltà nel lungo corso del George River: le mandrie di caribù lo sanno per istinto, al punto che percorrono decine e decine di chilometri per attraversare proprio lì, dove il rischio e lo sforzo sono minori. I nativi del Québec lo scoprirono centinaia d’anni fa e da allora, nella stagione della caccia, decisero di trasferire in quel luogo i loro accampamenti, fino a quando cessarono la vita nomade.
L’aereo riparte, l’accampamento è a otto ore di canoa dal lodge: raggiungerlo a forza di pagaie ci consentirà di cominciare a capire l’ambiente nel quale stiamo entrando. Del resto, gli avi di Serge disponevano esclusivamente di questo mezzo di trasporto e percorrevano distanze decisamente maggiori. Per una decina di giorni avremo modo di perderci nel passato, vivendo come i vecchi Montagnais; saliamo così con gli altri “esploratori” sulla canoa e offriamo il nostro contributo per risalire la corrente del fiume che tuttora i nativi considerano sacro.
Il Québec settentrionale è popolato quasi solo da animali: incontriamo un branco di lupi che attraversa il fiume e, più avanti, due piccole mandrie di caribù intente ad abbeverarsi. Sono femmine con i cuccioli, e il nostro passaggio silenzioso non le disturba. Stizzite nuvole nere scaricano brevi acquazzoni e Serge è soddisfatto, perché questo è «nice weather». In effetti, fra uno scroscio e l’altro, scintillanti arcobaleni scavalcano il fiume e ampi squarci di sereno lasciano il sole libero di accendere la tundra con i suoi colori di prepotente bellezza. Non c’è tempo di annoiarsi: ad ogni ansa, a ogni sosta per riposare troviamo qualcosa di cui stupirci. Insospettate spiaggette di sabbia, ampie golene dove l’acqua è immobile, colline sulle quali volano le aquile, fiori sconosciuti, relitti di imbarcazioni a cui è andata male. E arriviamo finalmente a destinazione.

L’armonia della natura
Il centro dell’accampamento è la shaputuan, una costruzione di pali di legno e pelli attorno alla quale ruota la vita della comunità: è qui che ci si ritrova a raccontare storie, a discutere dei programmi per l’indomani, a preparare e consumare il pranzo e la cena. Per dormire ci sono invece le tende tradizionali, nelle quali si ritirano una dozzina di persone disposte in cerchio attorno al focolare, con un letto di rami d’abete come materasso.
Il cibo va procurato e così seguiamo Serge e suo cugino Pierre a caccia di caribù, piombando nel passato senza avere nemmeno il tempo di accorgercene. Un grosso maschio sta scendendo lungo il sentiero per avvicinarsi al guado; imbracciato un fucile, Serge corre velocemente verso la canoa seguito da Pierre. Noi fatichiamo a star loro dietro e ovviamente non possono aspettarci, perché il caribù sta già guadando il fiume. Quando giungiamo sulla riva, i due cacciatori sono già all’inseguimento dell’animale. Saliamo nell’altra canoa e cerchiamo di non farci distanziare troppo. Il caribù non sembra particolarmente spaventato, ma quando i due cominciano a tenerlo a portata di tiro aumenta l’andatura, spingendo le zampe nell’acqua con sorprendente energia. I nostri anfitrioni riescono ad avvicinarsi un poco, ma la fatica si fa sentire e la preda si allontana di nuovo. Pierre continua a remare, Serge prende la mira e spara: il caribù muore all’istante. Resterà a galla solo per un po’, ed è quindi necessario raggiungerlo in fretta e legarlo alla canoa. Lo trasportano velocemente a riva, dove gli vengono tolte le interiora e poi viene scuoiato. Li raggiungiamo che hanno già iniziato e, per quello che possiamo, li aiutiamo; ci è stato chiesto però di non fotografare nulla, perché la morte non è mai uno spettacolo. «Questo animale è stato sacrificato per darci la carne e la pelle che ci servono, ma ha diritto alla nostra riconoscenza. Mostrarne l’uccisione è come sopprimerlo due volte, perché gli si toglie anche la dignità».
Nei giorni successivi i Montagnais catturano quattro belle oche del Canada e noi riusciamo a pescare alcuni grossi pesci utilizzando vecchie reti intrecciate a mano, mentre le donne riempiono i loro cesti di frutti di bosco raccolti fra i muschi della tundra. Quanto alle altre necessità quotidiane, che qui non hanno il conforto dell’elettricità, si provvede secondo natura: per bere e per lavarsi l’intero George River è a nostra disposizione.
Al mattino si parte per affascinanti escursioni lungo i sentieri degli avi, a riscoprire le tracce dei vecchi accampamenti o a cercare qualche antico reperto che il tempo ha risparmiato. E poi ci sono i riti religiosi come quelli celebrati da Antan, il vecchio patriarca, che non veniva quassù da oltre trent’anni e con il suo tamburo sacro onora gli avi defunti, i cui resti sono da qualche parte qui intorno. Un giorno chiede di recarsi a qualche miglio di distanza, in un antico accampamento sul punto più alto della collina che sovrasta il fiume, e lo accompagniamo tutti, assistendo in rispettoso silenzio alla cerimonia. Antan è molto anziano, ma nessuno – lui per primo – sa con certezza quanti anni abbia. Forse 80, forse meno, ma comunque abbastanza per essere venerato da tutti. Con le sue mani deformate dall’età scava una piccola fossa nel terreno, al centro di un cerchio di pietre che servivano per trattenere al suolo le pelli delle tende, poi inizia a recitare una preghiera in montagnais durante la quale si rivolge a suo padre e a suo nonno che, ci dicono, erano accaniti fumatori. Estratte dalla tasca del vecchio pullover alcune prese di tabacco, le avvolge in una foglia, le posa delicatamente nella cavità accompagnandole con due fiammiferi di legno e, continuando a pregare richiude con cura la fossa. Quando si rialza, i suoi occhi luccicano e non sono gli unici a trattenere a fatica lacrime di commozione.
Trascorrono i giorni, e ogni momento è così ricco di esperienze che poco disturbano le piogge improvvise, l’assalto spietato delle zanzare, il freddo che di notte costringe ad accendere le vecchie stufe di latta nelle tende. Questa vita ci ha riportati all’essenzialità delle cose, a misurarci con noi stessi e con le nostre energie. Ogni sera, poco dopo il tramonto, la mamma di Serge raduna tutti intorno al fuoco e racconta storie della sua vita e antiche leggende che il figlio traduce per noi: e quando il cielo s’infiamma in un’indimenticabile aurora boreale, ci sentiamo tanto in sintonia con questo mondo da non riuscire a credere che presto, troppo presto, dovremo tornare nel nostro.

Testo di Pier Vincenzo Zoli Foto di Mauro Camorani

PleinAir 443 – Giugno 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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