Cavalieri in Piazza Grande

La Giostra del Saracino è un'ottima scusa per partire alla volta di Arezzo: una città che ha conservato con cura il suo spettacolare patrimonio artistico non meno dell'antica tradizione equestre. E dove i v.r. trovano approdi comodi e sicuri.

Indice dell'itinerario

Nelle lettere che il Gino mi scriveva dalla sua Arezzo spiccava tutto il fervore per i due appuntamenti annuali con la Giostra del Saracino, una gara dei quartieri antica e importante come il Palio di Siena, anche se forse meno conosciuta. La corrispondenza mi aveva fatto venir voglia di partecipare a questa singolare kermesse e finalmente, dopo anni, mi sono deciso: pur avendo già visitato la città in molte altre occasioni, ho provato la strana emozione di chi vede per la prima volta qualcosa di inedito, quasi non avesse mai viaggiato né assistito a tornei cavallereschi di più o meno autentica tradizione.
Come ogni anno, Arezzo mette in campo un intero ciclo di manifestazioni che culminano nelle due competizioni equestri (le edizioni del 2007 si tengono il 23 giugno in versione serale e il 2 settembre in quella pomeridiana). Cortei di figuranti a piedi e a cavallo attraversano la città mescolandosi ai residenti e ai turisti, finché la domenica tutto converge in Piazza Grande, che sembra essersi conservata intatta nei secoli solo per offrirsi come perfetto fondale a una manifestazione in costume. Tutto il centro storico è ammantato dai colori di ciascuno dei quattro rioni partecipanti: il rosso e il verde di Porta Crucifera, il giallo e il cremisi di Porta del Foro, il bianco e il verde di Porta Sant’Andrea, il giallo e l’azzurro di Porta Santo Spirito.
A un occhio distratto potrebbe sembrare l’ennesima festa estiva volta ad attirare in folta schiera i curiosi, ma non è così. Il torneo è infatti di tradizione piuttosto remota, come attestano documenti che esaltano la passione degli aretini per questo genere di spettacoli fin dal ‘200, mentre nel XVI secolo si trova una menzione più esplicita della gara. Si giostri contro il Buratto il giorno di domenica per un premio di un braccio di raso paonazzo è scritto su una delibera dei Priori datata 6 agosto 1535, promulgata a maggioranza di ventisei fave nere contro tre fave bianche .
Protagonista della Giostra è appunto il Buratto o Re delle Indie, un pupazzo con la faccia di moro contro il quale si accaniscono i cavalieri. Com’è facile intuire, con questa messinscena si vogliono ricordare sia le scorrerie dei Saraceni (che costrinsero i borghi di mezza Italia, tra cui appunto Arezzo, ad arroccarsi in castelli) che le Crociate. Il fantoccio viene issato su un palo girevole con le braccia spalancate: in una mano sorregge un bersaglio che il cavaliere deve colpire con la lancia, nell’altra il mazzafrusto, un flagello con palle di piombo e cuoio che nella rotazione del pupazzo rischiano di colpire a loro volta il cavaliere. Il gioco consiste nell’evitare il pesante colpo nonché, ovviamente, nel centrare il bersaglio: da qui il punteggio e le penalità. Gli otto cavalieri, due per quartiere, effettuano due carriere a testa, finché si proclama il vincitore che riceve in consegna la lancia d’oro tra grandi festeggiamenti di piazza.
A questa formulazione si è giunti nell’arco del ‘900, ma le vicende della Giostra nel corso del tempo sono decisamente molto varie. Gli archivi comunali ricordano un torneo svoltosi il 21 maggio 1593 in occasione della visita di Ferdinando I di Toscana (era peraltro usuale festeggiare con un cimento equestre avvenimenti pubblici e privati di alto livello), mentre un’altra Giostra tenutasi il 6 dicembre 1677 per la ricorrenza di San Nicolò è narrata con dovizia di particolari in un opuscolo dell’epoca, che contiene anche il regolamento della gara a cui si è ispirato quello odierno. Nei secoli successivi la storia si fa più articolata con tornei che, stando alle cronache, sono di diversa impostazione e si svolgono a cadenze piuttosto irregolari fino a quello del 15 agosto 1810, celebrativo del compleanno di Napoleone Bonaparte. Poi la Giostra scompare quasi del tutto e si ha notizia della tradizione perlopiù a proposito di piccole gare campagnole. Il giorno della rinascita è il 7 agosto 1931, quando viene definitivamente riscoperta nella sua forma di rievocazione storica ambientata nel XVI secolo, scegliendo Piazza Grande per lo svolgimento e facendo gareggiare i cavalieri non più individualmente, ma come rappresentanti dei quartieri. Salvo un’interruzione di qualche anno a causa della Seconda Guerra Mondiale, da allora a oggi sono state disputate centododici edizioni (la centesima, guarda caso, si è tenuta nel 2000 giusto a proposito per festeggiare con una cifra tonda il cambio di millennio). Il clou della manifestazione ha luogo, come detto, la domenica pomeriggio in Piazza Grande dove il pubblico assiste al torneo da dietro le transenne o dalla tribuna. Ma il rituale inizia già sette giorni prima, allorché il corteo si porta in Piazza del Comune per essere presente alla consegna dello scettro da parte del sindaco al Maestro di Campo, al giuramento dei Capitani dei Quartieri, all’estrazione dell’ordine delle carriere e al trasferimento della lancia d’oro in cattedrale. Tutti i pomeriggi della settimana successiva i giostratori si allenano nella piazza, e in particolare il venerdì antistante la gara verrà effettuata la Provaccia, ovvero la prova generale in notturna. Il sabato una nuova sfilata per le vie cittadine precede il raduno in Piazza San Francesco per l’investitura dei giostratori e la bollatura dei cavalli (attorno al collo dell’animale viene sigillato un nastro di plastica ad impedire eventuali sostituzioni); a sera le grandi cene di quartiere precludono al traffico intere zone della città.
Giunge così il gran giorno, i cui momenti peculiari sono annunciati da colpi di mortaio. Si inizia con il ritiro dal duomo della lancia d’oro ad opera di fanti e valletti, poi ci si sposta al Palazzo dei Priori da dove, dopo la lettura del bando, si muove il corteo storico che attraverserà tutta Arezzo. Con il terzo colpo di mortaio lo spettatore dovrà fare una scelta: la benedizione dei giostratori e degli armati si svolge infatti in quattro chiese diverse, una per ciascun rione. Il corteo si ricompone quindi nei Viali del Prato e da qui riparte in direzione del duomo per ricevere la benedizione del vescovo e sfilare verso Piazza Grande, con solenne ingresso e un altro immancabile colpo di mortaio. La cerimonia procede con le esibizioni degli sbandieratori e la lettura di vari editti, mentre la tensione sale sugli spalti gremiti per la contesa: ed ecco partire i cavalieri, che devono colpire senza essere colpiti un pannello diviso in vari settori, ognuno riportante il corrispondente punteggio. Dopo ogni carriera, il bersaglio viene rimosso e portato al controllo dei giudici che esporranno su un tabellone il risultato in numeri romani. Completate le sedici cariche e svolti gli eventuali spareggi, un ultimo colpo di mortaio saluta il quartiere vincitore, i cui rappresentanti dovranno ora recarsi in duomo per il Te Deum di ringraziamento, mentre ben altri festeggiamenti si svolgeranno nelle strade fino a notte inoltrata.

A misura d’uomo
Al contrario di tante città che accolgono il forestiero con tangenziali, rondò, svincoli e una segnaletica non sempre precisa, Arezzo presenta una semplice circonvallazione, impostata già quarant’anni fa, che distribuisce il traffico verso il centro, le periferie e i sobborghi. Un breve raccordo la collega all’Autosole, che si trova ad ovest, mentre dalla parte opposta la statale 73 conduce all’Appennino e alla Roma-Cesena. Chi proviene da tale direzione scendendo da Sansepolcro o da Monterchi può lasciare la strada poco prima di Arezzo al bivio di Foce di Scopetone, dove un vecchio tracciato raggiunge in poche centinaia di metri il valico omonimo e poi scende per tornanti, mentre la città appare in basso in tutto il suo splendore. Altrimenti si prosegue sulla superstrada, che l’insolito profilo di alcune gallerie rivela essere stata disegnata su un tronco dismesso della ferrovia privata umbro-casentinese (tuttora in funzione su altre tratte); uscendo al primo bivio verso il centro indicante Santa Eufemia, giungeremo a una piccola pieve preceduta da uno slargo fra gli alberi, idilliaco riferimento per una sosta diurna ed eventualmente notturna se non disturba la solitudine del sito. Ocra e rosa, giallo e mattone sono le tinte che caratterizzano la parte storica di Arezzo: se non ci fossero auto e moto, lampioni e antenne televisive, sarebbe ancora la stessa che Piero della Francesca ritrasse nel ‘400. Il noto profilo della parte alta della città, con il campanile del duomo e la torre della pieve romanica di Santa Maria (detta delle cento buche per le bifore che si aprono sui quattro lati), è più o meno quello che ritroviamo nella chiesa di San Francesco nel suo famosissimo ciclo di affreschi denominato Leggenda della Vera Croce. Non si potrà poi ignorare la notevole facciata a vari ordini di archetti della suddetta Santa Maria, celebre anche perché conserva un polittico del Lorenzetti. Seguendo le tabelle esplicative indicanti il Percorso di Arretium troveremo la Santissima Annunziata che è quasi un museo per le opere d’arte che contiene, fra cui l’Annunciazione di Spinello Aretino, la Deposizione del Vasari, vetrate cinquecentesche del Marcillat e pregevoli capitelli di Antonio da Sangallo, poi la chiesa di Santa Maria in Gradi, la Casa Vasari affrescata dallo stesso, il Palazzo del Comune e il duomo, che presenta sopra l’altare maggiore la trecentesca Arca di San Donato, nella navata sinistra il prezioso affresco di Piero della Francesca raffigurante la Maddalena e ancora vetrate del Marcillat. Lì accanto il cosiddetto Parco del Passeggio al Prato, con i giardini sorti attorno alla Fortezza Medicea, dov’erano l’antica acropoli e poi il cassero medioevale; poco sotto, la Casa del Petrarca. Ridiscendendo verso le mura si uscirà in Piazza Vasari, su cui affacciano una serie di antiche facciate tra le quali spicca, sul campaniletto a vela del Palazzo della Confraternita dei Laici, l’orologio del 1552 che segna giorni, fasi lunari e movimenti del sole. Una nota a parte merita il Museo Archeologico, ricco di reperti etruschi e delle cosiddette ceramiche aretine, ma nel quale manca il simbolo della città rinvenuto nel 1553 nel Passeggio al Prato, e cioè la statua ellenica in bronzo della Chimera, il cui originale è conservato a Firenze. Procedendo in direzione sud si potrà quindi visitare la chiesa di Santa Maria delle Grazie, dall’aereo portico quattrocentesco di Benedetto da Majano (all’interno un altare robbiano) attorno al cui recinto c’è anche modo di lasciare il camper.
Ma il piacere della visita sta anche nel perdersi tra i vicoli respirandone l’atmosfera medioevale, a cominciare dai nomi: Borg’Unto, Piaggia di Murello, Canto alla Croce, Via di Pescaja, Via della Bicchieraia… Si può infine concludere il giro nei pressi della stazione ferroviaria, dove due fontane sono una moderna riproduzione della famosa Chimera. Se non ci si può fermare a lungo, la passeggiata fra i monumenti descritti è talmente concentrata che basterà usufruire, per pochi centesimi, di uno dei parcheggi al di fuori della cinta muraria medicea (ad esempio presso Porta Buia) e in un paio d’ore tornare al mezzo.

Il travestito
Da sempre il vostro cronista, alle prese con una manifestazione, si diverte a eludere transenne e recinzioni per intrufolarsi a fotografare da vicino, muovendosi con estrema discrezione e facendosi notare il meno possibile: male che vada, viene gentilmente riaccompagnato all’uscita. Figurarsi qui ad Arezzo, dove l’accredito per la stampa gli dava il permesso di immortalare ciò che ritenesse opportuno, tranne all’interno del campo di gara. Non esistendo però alcun tesserino o altro lasciapassare da esibire, si è ritrovato all’investitura dei giostratori del sabato a dover pazientemente spiegare per cinque volte ad altrettanti vigili la sua posizione e ad assicurare che non avrebbe intralciato, restando accanto alla troupe che effettuava la ripresa televisiva. Finché un sesto vigile non lo ha spintonato ingiungendogli: «Se vuole fare foto deve vestirsi!». C’è voluto un giorno e mezzo per capire il significato del misterioso invito allorquando, mescolati al corteo di armigeri, dame e cavalieri che incedeva in Piazza Grande, sono apparsi strani frati provvisti di oggetti luccicanti del tutto simili a modernissime macchine fotografiche. Tutto chiaro: non si voleva che a disturbare l’omogeneità della manifestazione entrassero, nelle immagini ufficiali, persone vestite in modo anacronistico, e a tal fine vengono messe a disposizione degli inviati lunghe cappe chiamate lucchi.

Il ponte di Leonardo
Si può sentire di appartenere ad un luogo anche senza averci mai abitato, solo dormito qualche volta in visita all’amico d’infanzia che, nelle sue missive, raccontava la vita quotidiana di Arezzo – lui che abitava in centro – lasciando immaginare la città quasi mai vista e suggerendo, attraverso la toponomastica, alcuni suoi uomini illustri (d’accordo Petrarca e Pietro Aretino, ma chi erano mai Francesco Redi e Guido Monaco?). E si può continuare ad amare dopo interi decenni la dolce cantilena di un dialetto che ricorda un’età lontana e chi la condivise, quell’amico scomparso, una ragazza inutilmente corteggiata.
Di quelle rare mie frequentazioni rammento una pedalata che io e il Gino facemmo fuori città (allora campagna, adesso sterminata periferia) fino a una località chiamata Ponte a Buriano, laddove l’Arno è scavalcato da un grande e antico manufatto a più arcate. Mai avrei immaginato di ritrovare, tanti anni più tardi, quel ponte segnalato dai libri d’arte come probabilmente lo stesso dipinto da Leonardo sullo sfondo della Gioconda, e ancora meno di passare una notte in camper nel limitrofo parco, perfetto punto sosta non a caso chiamato Paradiso della Gioconda.

PleinAir 419 – giugno 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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