Castagne e bollicine

Qui nasce una delle minerali più note d'Italia: ma il culto dell'acqua sul vulcano di Roccamonfina ha radici remote, come i castagni che lo decorano e gli insediamenti che gli fanno corona.

Indice dell'itinerario

Scendendo da nord lungo la Casilina, varcato il confine tra Lazio e Campania si scopre il primo segno del vulcano già nella fertile piana che ne rasenta le pendici, in un raro ambiente naturale ignorato dalle carte automobilistiche e dalle stesse tabelle stradali. Trecento metri prima della deviazione per Marzano (la seguiremo per salire a Roccamonfina) occorre svoltare nella strada a sinistra e fermare subito il mezzo accanto a un grande edificio bianco: dopo cento metri parte un sentiero, indicato da un segnalino in legno a destra, che sfiora l’arativo per poi discendere a un verde baratro circolare, tra un fitto bosco che lascia scorgere un piccolo lago solo al fondo del pozzo. Il solitario cratere ha un asse di forse 300 metri, con dislivello di una cinquantina dalla pianura; in un ambiente di folta e arruffata vegetazione riecheggiano i versi di uccelli di varie specie che hanno trovato nel lago di Corree il loro indisturbato paradiso. Totalmente invisibile dall’alto, il sito ha un fascino misterioso accentuato dal color verde cupo dell’acqua, soggetta a repentini cambiamenti del livello per essere inghiottita da ignoti canali sotterranei.
Tornati sulla strada principale, diverse vie risalgono i fianchi dell’ampia area vulcanica della montagna di Roccamonfina, ma quella che tocca Marzano è a nostro avviso preferibile per la bellezza dei folti castagneti. Il paese comprende più frazioni (una delle quali, Terracorpo, meriterà la nostra attenzione). Superato l’abitato principale si nota a sinistra una piccola chiesa e alle sue spalle un parcheggio. Lasciato qui il veicolo e incamminandosi sul percorso indicato per Vallecupa, si arriva a una decisa svolta a sinistra che conduce a un piccolo piazzale con fontanella, dove occorre prendere il viottolo che sale erto sulla destra. In tutto poco più di un chilometro per giungere a un imponente palazzo: lo stato di completa decadenza, con le chiome degli alberi che cercano luce fuori dalle cornici delle finestre, non riesce a nasconderne l’antica nobiltà. L’edificio, un tempo castello, appartenne alla famiglia di stirpe longobarda dei Marzano, che fra il Trecento e il Quattrocento divennero feudatari di tutta questa parte della regione fino al mare. Li incontreremo più volte, svolgendosi l’itinerario quasi interamente nei loro possedimenti.
Roccamonfina (il cui nome potrebbe risalire a Mefitis, divinità italica legata alle sorgenti sulfuree) sembra affondare nei boschi di castagni che ricoprono l’ampio complesso vulcanico. Centro del paese è la lunga Piazza Nicola Amore – al cui margine restano modeste tracce delle mura e del castello rafforzati nel 1347 da Goffredo Marzano – con la chiesa di Santa Maria Maggiore, bar e negozi nonché un comodo parcheggio. Nel secondo weekend di ottobre vi ha luogo una sagra delle castagne di grande richiamo, ma anche nelle altre stagioni si possono gustare specialità a base del saporito frutto preparate da fantasiosi pasticcieri: castagnacci e marron glacé, certo, ma anche torroni, biscotti, gelati, fino a un cremoso liquore.
Dalla piazza parte la strada che ci condurrà ai 765 metri del santuario di Santa Maria dei Lattani, dove la statua di una Madonna col Bambino in pietra vulcanica dipinta resta oggetto di un culto devoto e di tradizionali pellegrinaggi di larga provenienza. Oltre l’arco d’accesso si trova un ampio cortile su cui affacciano le belle arcate del monastero, il sobrio portale rinascimentale della chiesa e una fonte d’acqua sorgiva ritenuta miracolosa. Sul lato sinistro l’eremo di San Bernardino – che fu foresteria per i pellegrini – mostra due superbe finestre in materiale vulcanico nel gotico fiammeggiante o fiorito di gusto catalano. Bussando alla porta sotto le arcate sarete accolti dai frati per la visita del chiostro, finemente decorato.
Il complesso di Santa Maria dei Lattani è quattrocentesco, ma una bolla pontificia del 1970 fa riferimento a un culto che risalirebbe addirittura al VI secolo: e in proposito ce n’è abbastanza per una piccola divagazione storico-linguistica. Precursore del sito cristiano sorto accanto alla sorgente del santuario potrebbe essere stato un luogo di culto degli Ausoni, nome dei più antichi abitanti di questa zona fra Campania e Lazio, derivato dal termine ausa (uomini delle sorgenti) e più tardi trasformatosi in Aurunci, altro toponimo locale. Quale che sia l’evoluzione degli idiomi, rimane il fatto che la tradizione si è protratta nei secoli ed era credenza popolare che i fidanzati, bevendo l’acqua della sorgente dei Lattani, si sarebbero amati per sempre e il loro primogenito sarebbe stato un maschio.Tornando ai nostri tempi, su alcune prominenze del vulcano non mancano purtroppo le antenne per telecomunicazioni; ma questo non ci impedirà di godere la bellezza e la frescura di boschi resi rigogliosi dalle ceneri di antiche eruzioni. La cima maggiore, Monte Santa Croce, tocca appena i 1.000 metri per effetto dello sprofondamento del cono centrale che in epoche preistoriche si sarebbe elevato a ben 3.000 metri. Intorno al Santa Croce si stende una caldera di circa 6 chilometri di diametro, al cui interno giace la stessa Roccamonfina: il solitario corridoio semicircolare che si sviluppa tra il rilievo centrale e la parete nord del recinto vulcanico si consiglia come facile e piacevole passeggiata in bici di una quindicina di chilometri.
Lasciato il mezzo in paese, si raggiunge la frazione di Fontanafredda che fa onore al suo nome con una fonte sorgiva molto apprezzata per la qualità dell’acqua. Da qui in poi il percorso corre attraverso i castagneti, in una sorta di fondovalle pianeggiante che costituisce l’ambiente più freddo di tutta la montagna: ne sono una riprova le antiche neviere che vedrete sulla sinistra, dove la neve poteva mantenersi fino al nuovo inverno, utilizzata soprattutto dai pescatori del non lontano litorale. Data la quota relativamente modesta, le profonde buche erano coperte da una struttura in pietra e spettava tradizionalmente alle donne riempirle dopo le nevicate; si tratta di un importante relitto della cultura materiale del luogo, che gli amministratori dovrebbero recuperare e proteggere dall’incivile degrado in cui versano.

La bella Aurunca
Di Sessa Aurunca sono stati raccontati in queste pagine (vedi PleinAir n. 320) i coinvolgenti riti che vi si svolgono durante la Settimana Santa. Nella cittadina, che si estende in lunghezza su uno sperone eruttivo, il suggerimento per la sosta è di raggiungere il grande parcheggio pubblico sottostante le mura occidentali, ottimo per visitare l’interessantissimo centro storico. Un’alternativa sarebbe di fermarsi nella piazza antistante il Palazzo Ducale (al giovedì vivace mercato), però con i limiti imposti dalla sosta oraria.
Riteniamo Sessa, da tempo in disparte rispetto alla grande viabilità, una delle perle ignorate dell’Italia cosiddetta minore. Poggiata tra giardini di aranci e limoni sul pendio tufaceo, a tener d’occhio la fertile piana e il mare più lontano, i suoi luminosi vicoli a lato del Corso Lucilio – già cardus romano – sono un dedalo da conquistare per scovare, quasi dimenticati, portali e finestre di gusto catalano, cupole in lucenti maioliche, un palazzetto dignitoso o una lapide romana murata, fino a guadagnare una cattedrale del 1100 che si rivela un’autentica scoperta. Qui la meraviglia comincia all’esterno con le storie raccontate nel marmo degli archivolti, le decorazioni con fiori, piante, animali simbolici del Medioevo che si alternano a marmi romani di spoglio, mentre all’interno spiccano il pulpito e il cero pasquale, capolavori duecenteschi del locale maestro Pellegrino, ma anche un eccezionale pavimento e – nella navata destra – un interessante rilievo in pietra vulcanica raffigurante Giona e la balena.
Da Corso Lucilio, girando a destra presso i giardini pubblici, si può osservare – ma solo dall’alto – il grande teatro romano appena restaurato, con criptoportico a due navate. Gli scavi hanno portato anche al recupero di un gran numero di importanti marmi che verranno esposti nel museo previsto a Palazzo Ducale: nel frattempo suggeriamo di chiedere qui del piccolo distaccamento della Sovrintendenza (orari d’ufficio) che ha opportunamente adibito una saletta a esposizione di alcuni pezzi. Scoprirete così un’opera di tale bellezza da valere un viaggio, la statua di Matidia Minore, cognata dell’imperatore Adriano che nel II secolo volle la ricostruzione del teatro: finissimi marmi grigio e moro per le tinte della tunica, bianco per l’incarnato compongono una figura senza enfasi ma di sicura nobiltà ed eleganza, il cui leggero panneggio rammenta la naturalezza con cui il vento schiacciava il velo sul corpo della Nike di Samotracia.
Per vedere i resti della Via Adrianea, che univa la costa all’entroterra, occorrerà invece proseguire oltre la parte più bassa di Sessa fino ad arrivare al lungo ponte romano detto degli Aurunci, in un ambiente che attende decisi interventi di adattamento. Ma fra i tanti temi che la città propone, l’ultimo di cui vogliamo riferire riguarda Rongolise (che fu Auruncolise), piccolo borgo sito 3 chilometri a nord, reso illustre da una chiesa rupestre affrescata di particolare interesse che potrebbe risalire al Mille, se non prima. Scavata con sezione a campana nella trachite delle pendici, Santa Maria in Grotta ha una pianta molto articolata ed è affiancata da altri ambienti ricavati per usi profani. Tra i numerosi affreschi di qualità ed epoche differenti, il più antico sembra essere l’immagine della Madonna tra due angeli sulla parete di fondo; tra i più pregevoli appare la Dormitio Virginis della parete destra, nella quale vengono letti influssi bizantini di provenienza sicula. Depositario delle chiavi è il parroco del paese.

I Catalani a Cerinola
Decentrato ancor più di Sessa Aurunca rispetto alle strade di transito, il piccolo centro di Carinola possiede testimonianze tra le più insigni dello stile catalano in Campania. Si tratta dei palazzi Novelli e Marzano, il primo restaurato dopo l’acquisizione da parte del Comune, il secondo reso visitabile dopo gli indispensabili ma non conclusivi interventi a suo tempo effettuati. Palazzo Novelli, che caratterizza la piazza principale, si fa ammirare anche dal profano per le sue finestre tutte squisitamente diverse che mostrano, sui differenti lati, la capacità inventiva degli artisti di Catalogna che le concepirono; il bel portale durazzesco mostra invece nell’arco ribassato una scelta di gusto napoletano. Opera del Sagrera in puro stile catalano – ben netti qui i riferimenti al gotico fiammeggiante – è Palazzo Marzano, sia pure ridotto a una minima parte dei volumi originari da un distruttivo evento bellico: eppure c’è quanto basta a suscitare viva ammirazione. Altri particolari in stile si possono scoprire andando per stradine o nella parte del castello di Carinola (davanti al quale si sarà posteggiato il mezzo) risparmiata dalla guerra. E ancora, meriterà visita l’ex cattedrale dove l’eliminazione delle sovrastrutture barocche restituì agli interni la nobiltà delle originarie forme gotiche.
Ma nei paraggi ci attende ancora una scoperta. Occorre rimetterci al volante per spingerci nella frazione Casanova e da qui all’isolato convento di San Francesco, retto da una quindicina d’anni da un unico frate dei Minori, simpatico e gentile personaggio che alterna al chiostro l’insegnamento spostandosi a Sessa Aurunca. Fu un irlandese, storico dell’Ordine francescano, a riferire della presenza di San Francesco a Sessa e a Carinola nel 1222, quando vi compì un miracolo raccontato anche negli affreschi di Assisi. La chiesa, preceduta da un ampio sagrato, mostra i segni di un impianto gotico con differenti interventi successivi ed è affiancata da un chiostrino ricco di piante; e conquista in particolare l’assorta atmosfera del sito, su una lieve elevazione che domina le coltivazioni verso il mare. Ma visitatelo finché ce n’è la possibilità, perché ha i suoi acciacchi e senza interventi ormai urgenti potrebbe essere pregiudicata la stabilità stessa della chiesa.
Se poi nel lasciare Carinola sceglierete di passare per il casale di Ventaroli potrete visitare l’ex cattedrale di Forum Claudii, che fu sede vescovile sino al trasferimento di questa a Carinola alla fine del 1100. A Ventaroli, chiesto della persona che ha le chiavi, con 300 metri a piedi si è già nella campagna e alla basilica, che reca la memoria dell’antico episcopio e sorge su un’edificazione paleocristiana. Nelle sue tre navate si mantiene all’interno la semplicità del romanico e si lasciano apprezzare gli affreschi dell’abside, non ancora divorati dall’umidità che ha reso illeggibili i rimanenti (la causa è nel dislivello di quei cinque gradini che dovrete discendere per entrare in chiesa). Sino a poco tempo fa Teano si visitava per il teatro romano appena fuori dall’abitato, per il notevole Cristo su tavola di discendenza giottesca all’altar maggiore della cattedrale, per il carattere del suo vivace centro storico. Ora, per giunta, il significativo edificio gotico del Loggione Cavallerizza è diventato un fruibilissimo museo archeologico in cui sono esposti unicamente reperti del territorio comunale, e che si visita con vero piacere anche per la completezza del corredo didascalico. Il complesso, costruito con l’acquisizione di quel feudo da parte dei Marzano nel 1370, fu centro amministrativo e giudiziario di Teano ma ospitò anche una scuderia. Nei passati anni Settanta fu in parte adibito a sala cinematografica; più tardi venne iniziato un felice recupero che lascia oggi ben visibili i resti romani su cui venne costruito. Il legame con il culto delle acque affiora con evidenza da un cospicuo ritrovamento, presso una sorgente, di boccali in miniatura al cui interno si rinvennero piccoli monili in bronzo e pasta vitrea, interpretabili come doni votivi femminili. Un curioso episodio risalente invece al periodo romano riguarda lo sventurato questore Marco Mario che – lo attesta Cicerone – venne giustiziato per le lagnanze della moglie del console sui bagni pubblici. Nel lasciare Teano, se scenderete alla Casilina da est passando quindi per la restaurata basilica romanica di San Paride e imboccando poi la statale verso nord (segnalazioni carenti), troverete subito il distributore Ewa fornito di area attrezzata, il cui camper service resta per ora l’unico dell’itinerario.

La via panoramica
Delle due vie che da Vairano Scalo conducono a Vairano e al suo castello, la cosiddetta panoramica – preferibile per i suoi valori paesistici – non è facilmente identificabile e occorre perciò chiederne sul posto. Attraversa un alberato ambiente collinare e al suo sbocco, tenendo a destra e infine sulla sinistra, si perviene a un castello turrito che a distanza potrebbe sembrare integro se attraverso le vuote finestre non apparissero rettangoli di cielo. La storia del paese fa perno sulle vicende di questo edificio che l’imperatore svevo Enrico VI donò nel 1191 all’abate di Montecassino, cercandone l’appoggio: gli abitanti di Vairano non se ne dettero ragione e due anni dopo l’abate Roffredo dovette riprenderne possesso manu militari, ma i difensori non mollarono e il tentativo finì in un vero fiasco. Nel suo aspetto attuale il castello, che mostra le forme adatte a resistere alle armi da fuoco secondo le quali il feudatario Innico d’Avalos lo ristrutturò alla fine del Quattrocento, appare estremamente bisognoso di qualche restauro. La passeggiata rimane tuttavia consigliabile anche per la suggestione dell’adiacente quartiere antico.
La via panoramica può essere ripresa per continuare sempre in quota fino a Pietravairano alle cui soglie merita attenzione la seicentesca chiesa di Santa Maria, già convento. Per parcheggiare (e pernottare) ci siamo fermati nel posteggio accanto alla chiesa in centro: da qui, attraversando nella parte più alta un serrato ambiente medioevale, in meno di un quarto d’ora si sale al torrione castellano spaziando con lo sguardo sulla piana, che in seguito percorreremo fino al paese vecchio di San Felice. Il borgo è disabitato da oltre cinquant’anni, da quando il proprietario dei terreni a piè dell’altura detta appunto di San Felice concesse agli abitanti un terreno per ricostruire più in basso le loro abitazioni. Ma cosa c’era che lassù non andava? Semplicemente il luogo era del tutto privo d’acqua e per secoli la gente aveva dovuto portarci i barilotti per mulattiera, a spalla o a dorso d’asino. Quando scesero gli abitanti portarono con sé tegole, infissi e quant’altro si poteva, ma l’impianto del borgo vecchio rimase quasi intatto, pur se intaccato dal tempo: attualmente una strada arriva al cimitero (rimasto al suo posto) da dove in breve si sale fino a San Felice Vecchio.
Tornati alla provinciale riprendiamo verso Vairano Scalo per la strada di fondovalle; ma non rinunciamo, appena prima di Marzanello, a seguire sulla destra l’indicazione per la Madonna del Monte. Una serie di tornanti porta in quota a un piccolo santuario, ricordato fin dal 1300, dove la via termina con un piazzale. Il contrafforte è privo di vegetazione, ma bella è la veduta sulla piana coltivata dove si riesce ancora a riconoscere in lontananza la chiara torre di San Felice.
Di fianco alla chiesetta parte il sentiero che in un quarto d’ora sale ai resti di Marzanello Vecchio, nostra ultima tappa, dove i soli ruderi significativi sono quelli della chiesa di San Nicola. E’ un catasto dell’epoca borbonica ad informarci che nel 1741 il piccolo abitato contava 185 abitanti, tra i quali una sola “vergine in capillis” (appellativo indicante le fanciulle che per segno di illibatezza dovevano portare i capelli raccolti e non scioglierli che il giorno delle nozze). Il borgo cominciò ad essere abbandonato già verso il 1830 e nel 1944 gli Alleati attestati sul colle di San Felice per tarare le batterie si esercitarono al tiro a segno su quanto ne restava. Di Marzanello Vecchio non inquadreremo quindi che qualche spigolo informe, fotografando l’ultimo sole che scivola dietro il profilo dell’antico vulcano.

PleinAir 376 – novembre 2003

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

________________________________________________________

Tutti gli itinerari, i weekend, i diari di viaggio li puoi leggere sulla rivista digitale da smartphone, tablet o PC. Per gli iscritti al PLEINAIRCLUB l’accesso alla rivista digitale è inclusa.

Con l’abbonamento a PleinAir (11 numeri cartacei) ricevi la rivista e gli inserti speciali comodamente a casa e risparmi!

photo gallery

dove sostare

tag itinerario

cerca altri itinerari

Scegli cosa cercare
Viaggi
Sosta
Eventi

condividi l'articolo

Facebook
WhatsApp

nuove idee di viaggio