Calabria coast to coast: in camper da Pizzo a Monasterace

Carbone, ferro e marmo: il richiamo di mestieri e arti di un tempo che fu. PleinAir vi invita a un coast to coast calabrese da Pizzo a Monasterace Marina, tra luoghi sacri e antiche fonderie, tradizioni di ieri e leggende di oggi, in un viaggio di vera scoperta sui monti della regione più a sud dello Stivale

Indice dell'itinerario

Il mio viaggio in terra di Calabria, un tranquillo coast to coast dal Tirreno allo Jonio attraverso luci e misteri dell’entroterra, è cominciato in un baretto di Pizzo davanti a una specialità locale: il gelato. Mi sono goduto un tartufo al pistacchio, con una spruzzatina di polvere di cacao, comodamente seduto in Piazza Repubblica, il salotto del paese.

Vi affacciano antichi palazzi, la chiesetta dell’Immacolata e il castello dove il 15 ottobre 1815 fu fucilato Gioacchino Murat. «Risparmiate il mio volto, mirate al cuore… fuoco!» gridò risoluto il re di Napoli davanti al plotone d’esecuzione borbonico, dopo aver consegnato una busta con i ciuffi dei suoi capelli da recapitare alla moglie Carolina e ai figli. Prima del gelato non mi ero fatto mancare una nuotata nell’acqua trasparente di una baia sotto la città e la visita alla chiesetta di Piedigrotta, poco fuori l’abitato, scavata nel tufo nel ‘700 come ex voto da marinai napoletani scampati a un naufragio.

Il richiamo del mare davanti alla Costa degli Dei, insomma, è stato forte, ma il mio obiettivo era dirigermi verso la fumosa terra degli ultimi carbonai, e così ho fatto.

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L’acqua trasparente ai piedi della rupe di Pizzo.
L’acqua trasparente ai piedi della rupe di Pizzo

Serra San Bruno

Da Pizzo la strada gira intorno al Lago dell’Angitola e procede tra verdi montagne verso San Nicola da Crissa e Serra San Bruno. Annidato tra i boschi in una valle a 800 metri d’altitudine, il paese ruota intorno a ben nove chiese che ospitano inaspettate opere d’arte. L’aria frizzante e la pace del luogo ritemprano all’istante corpo e spirito, in particolare quando si passeggia intorno alla bella Certosa. È in questo monastero isolato dal mondo, fondato nel 1091 da Bruno da Colonia, che avvolta in un’aura di mistero vive una piccola e inavvicinabile comunità di religiosi.

Una veduta del Lago dell’Angitola
Una veduta del Lago dell’Angitola

I certosini escono solo una volta alla settimana per una camminata nei boschi, mentre una volta all’anno si concedono una breve gita in qualche luogo d’Italia. Sulla Certosa aleggiano varie leggende riguardo alle anime in pena che vi si sarebbero rifugiate, tra cui Ettore Majorana, il fisico trentaduenne misteriosamente scomparso nel 1938: i religiosi hanno sempre negato la sua presenza, venendo però contraddetti da alcune affermazioni rilasciate da papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita a Serra San Mauro nel 1984.

Molto interessante e aperto al pubblico è il Museo della Certosa, che custodisce reperti provenienti dalla cattedrale e ricostruzioni di ambienti claustrali; a 3 chilometri di distanza si visita invece il sito dove fu costruito il primo eremo, il santuario di Santa Maria del Bosco.

Il verde paesaggio nei dintorni di San Nicola di Crissa
Il verde paesaggio nei dintorni di San Nicola di Crissa

Avevo accennato ai carbonai di Serra San Bruno. Oggi non sono più di tre o quattro le famiglie che estraggono il carbone come si faceva un tempo. Un mestiere duro: occorrono lunghe giornate di lavoro per costruire una carbonaia. Si sistemano i pezzi di legno – prima i più grandi, con cui si forma il camino centrale, e poi i più piccoli – e quando la struttura è completata viene ricoperta da uno strato di paglia che funge da isolante per la terra, pressata a colpi di badile.

Alla fine dell’opera, la carbonaia viene accesa e alimentata ogni giorno per circa due settimane; dopo una ventina di giorni il carbone è pronto. «Le richieste non sono più numerose come un tempo» dice Giuseppe Vellone, un giovane lavoratore. «Una volta il carbone serviva come combustibile per le case.

Oggi le richieste arrivano solo da ristoranti, macellerie, pescherie». Ma qui sono certi che il loro prodotto sia il migliore del mondo, e bastano 70 centesimi per acquistare un chilo della carbonella sulla quale i cibi in cottura assumono sapori indimenticabili.

Alcune fasi di allestimento e di alimentazione di una carbonaia
Alcune fasi di allestimento e di alimentazione di una carbonaia

Soriano Calabro

Da Serra San Bruno una deviazione di una quindicina di chilometri conduce a Soriano Calabro, sede di un vero e proprio gioiello: il Museo dei Marmi è allestito all’interno del complesso di San Domenico, per secoli uno dei più fulgidi fari della spiritualità calabrese: distrutto da un terremoto nel 1783, il convento è oggi costituito da un incantevole giardino di ruderi e da una struttura edificata nel XIX secolo.

Il museo è scenograficamente allestito negli antichi ambienti, edificati secondo la tradizione su commissione di San Domenico stesso, apparso in sogno nel 1510 a Fra’ Vincenzo da Catanzaro. Tra i preziosi reperti, busti, medaglioni, capitelli, statue e frammenti di statue sei-settecenteschi provenienti dal convento, segnaliamo il meraviglioso busto in marmo alabastrino di San Domenico, opera di Giuliano Finelli, allievo e collaboratore del Bernini.

Fabbriche d’altri tempi

I ruderi dell’ottocentesca fonderia di Mongiana
I ruderi dell’ottocentesca fonderia di Mongiana

Tornati a Serra prendete la strada in ripida salita che porta in una decina di chilometri a Mongiana, paese circondato da una fitta corona d’alberi nella quiete delle Serre Calabre, al fresco dei suoi 920 metri d’altitudine. La strada si srotola nel verde sulle pendici dei monti; poi, sfiorato l’ingresso del parco di Villa Vittoria, arriva in paese tagliando a metà le case un tempo abitate dagli operai. Oggi regna il silenzio in questo luogo che 150 anni fa era la sede di uno dei poli siderurgici più importanti del Meridione. L’attività più mondana consiste nell’andare in un bar del paese, durante la stagione dei funghi, a caccia di qualche cercatore disposto a vendere i preziosi porcini trovati nei boschi qui intorno.

A parte la loro raccolta, che nasce e muore nell’arco di pochi mesi, durante il regno di Ferdinando IV Borbone a Mongiana funzionavano a pieno regime una fonderia e una fabbrica d’armi. Il paese è un raro esempio di villaggio industriale; nacque ufficialmente l’8 marzo 1771, quando per sostituire le obsolete ferriere di Stilo e aumentare la produzione di manufatti si procedette a costruire qui nuovi impianti.

Oltre a resti di mura e all’antica porta d’accesso, della fonderia rimane l’altoforno Santa Barbara, l’unico dei tre un tempo attivi nella parte bassa dell’abitato, accanto al torrente. In questa struttura, progettata alla metà dell’800 e distribuita su una superficie di 6.000 metri quadrati, un gran numero di operai produceva enormi quantità di ghisa e ferro.

Una fabbrica d’armi dell’esercito borbonico
Una fabbrica d’armi dell’esercito borbonico

I segreti di Mongiana

Ma in paese non c’era solo la fonderia. A partire dal 1852 cominciò a funzionare anche la fabbrica d’armi nella piazza principale, con l’ingresso delimitato da due alte colonne di ghisa in stile dorico. Nel complesso, nato per sostituire la vecchia fabbrica di canne da fucile voluta da Murat, si produssero fino al 1864 armi leggere tra cui il fucile di Mongiana, dalla canna lunghissima. Ma non venivano costruiti solo i pezzi per le armi: non si può non versare una lacrima di commozione pensando che proprio da qui uscirono anche i binari della prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici, inaugurata nel 1839.

Tutto questo fiorire di manodopera non fu utilizzato solo per fini militari o d’ingegneria pubblica. Sorse in parallelo una maestranza locale impegnata nella realizzazione di manufatti d’uso civile: cancelli, inferriate e soprattutto i balconi in ferro battuto che si possono ammirare ancora oggi per le vie di Mongiana (gli esempi più interessanti sono in Piazza San Rocco). Il tutto andò avanti fino al 1865 circa, poi, dopo una fase di riconversione in officina riparazioni, la fabbrica d’armi fu chiusa intorno al 1870.

Grazie all’entusiasmo di un gruppo di giovani appassionati di storia locale quell’importante passato è tornato a vedere il sole: le visite guidate, condite dai racconti sugli stili di vita degli operai, sono un memorabile viaggio nella storia. Nella parte alta del paese è interessante anche la chiesa di Santa Maria delle Grazie, innalzata alla fine del ‘700 grazie alla manodopera e con un cospicuo contributo monetario degli operai delle ferriere. Se è aperta vedrete campane con i sigilli borbonici e la statua lignea della Madonna delle Grazie, opera dello scultore serrese Vincenzo Scrivo.

Il vecchio abitato di Nardodipace
Il vecchio abitato di Nardodipace

Da non perdere, all’inizio della strada per Serra San Bruno, il parco di Villa Vittoria, sede del Corpo Forestale dello Stato e degli uffici territoriali della biodiversità. Si tratta di un’oasi naturalistica aperta al pubblico nella quale passeggiare in mezzo alle piante officinali (più di duecento) di un vasto giardino botanico. Tra i vari itinerari naturalistici della zona segnaliamo il bellissimo e invero lungo (ben 18 chilometri) sentiero Frassati che fra testimonianze d’archeologia industriale, antichi casolari e resti di mulini arriva alla Certosa di Serra San Bruno e poi risale a Villa Vittoria.

Nardodipace

Da Mongiana si prosegue sempre tra paesaggi montani fino al bivio per Nardodipace (8 chilometri circa), ritenuto il paese più povero d’Italia: e infatti continua a ricevere giornalisti ansiosi di raccontarlo. Il villaggio nuovo s’allunga in un altopiano circondato dai boschi con case e casette divise da grandi piazze e ampi viali perlopiù deserti, in un’atmosfera quasi metafisica. In realtà il dramma sociale del paese, abitato da poche centinaia di persone – molti fuggirono dal vecchio abitato con l’alluvione dei primi anni ’50 – è che la generazione di mezzo non esiste più. I genitori sono emigrati e ci vivono per lo più i nonni con i nipotini. La maggior parte delle case è desolatamente vuota.

Nardodipace
Nardodipace

Dal paese nuovo, oltrepassato il cimitero, un’ampia strada scende tra i boschi incontrando subito in successione due casotti in abbandono che avrebbero dovuto funzionare come punto informativo per la maggiore attrazione dei dintorni: i misteriosi megaliti, mastodontici massi di granito assemblati a incastro che continuano ad attirare a Nardodipace studiosi di ogni genere.

Le teorie sull’origine di queste costruzioni, che appaiono sui punti più elevati delle Serre Calabresi e sembrano evocare un mondo di giganti, sono le più disparate: remote sepolture, luoghi di culto, osservatori astronomici, testimonianze di civiltà antichissime o di alieni giocherelloni che vollero lasciare il segno del loro passaggio, o ancora il risultato di milioni di anni di sconvolgimenti geologici.

Per arrivarci ed esprimere un proprio parere, basta seguire le due indicazioni che appaiono lungo la strada in corrispondenza dei due casotti. Avvolti da silenzio e magia, si arriva in pochi minuti attraverso un bel sentiero attrezzato nel bosco al cospetto di due giganteschi megaliti (ce ne sono diversi, ma questi sono tra i più interessanti).

Nardodipace, nei dintorni sono presenti misteriosi monumenti megalitici
Nardodipace, nei dintorni sono presenti misteriosi monumenti megalitici

Tornati sulla strada maestra s’imbocca subito la deviazione a destra che procede per 4 chilometri lungo una discesa dalla pendenza vertiginosa e sconsigliata ai camper fino a Nardodipace Vecchio, paese quasi del tutto abbandonato: non vi abitano più di sei o sette persone. È davvero piccolo il mondo per chi vive qui: avanti e indietro per due borghi dimenticati, collegati da un cordone ombelicale d’asfalto. L’abitato è fatto di stradine dove incontriamo vecchie porte di legno, case sventrate a cielo aperto, balconcini di ferro battuto con le sigle dei proprietari di un tempo, una chiesa e qualche orticello: piccoli segnali di vita tra la desolazione.

Verdissimi e brulli rilievi

Il casino di caccia di Ferdinandea
Il casino di caccia di Ferdinandea

Tornati sulla strada per Stilo si arriva per ripidi tornanti a un bivio e alla strada che conduce a Ferdinandea. Tutto quel che resta della fonderia costruita alla fine del ‘700 a 1.000 metri di quota è un rudere assediato dalla vegetazione. Di fianco ci sono le vecchie case degli operai e l’antica casina di caccia di Ferdinando II, dal vasto cortile interno con la fontana, la cappella, il busto del re, un’edicola commemorativa in ghisa e l’intatta scalinata con decori originali alle pareti. Ho avuto il permesso di visitarla dai proprietari: “questa dimora incantata come il Monsalvato, il mitico castello di Parsifal che sta in una foresta, in una terra sconosciuta” – scriveva Matilde Serao – è privata e custodita da un taglialegna dall’umore mutevole.

Ripresa la tortuosissima strada verso Stilo, si incontra dopo alcuni chilometri la deviazione che porta all’eremo di Monte Stella, raggiungibile per un’erta strada di montagna da percorrere con attenzione. Scenograficamente ricavato in una grotta naturale (si scendono 62 gradini scavati nella roccia), il santuario è un luogo di grande suggestione e devozione popolare, frequentato da frotte di pellegrini che vengono ad adorare il simulacro dell’Assunta.

Il santuario di Santa Maria della Stella è ricavato in una profonda grotta a poca distanza da Pazzano
Il santuario di Santa Maria della Stella è ricavato in una profonda grotta a poca distanza da Pazzano

Da Pazzano a Bagni di Guida

Tornati sulla strada maestra la strada scende ancora; in pochi chilometri si arriva a Pazzano, l’antica colonia per i damnati ad metalla le cui miniere di limonite e pirite furono sfruttate sin dall’antichità, dove fu attiva persino una ferriera di proprietà dei certosini di Serra San Bruno. Molto interessante, proprio all’entrata del paese, la settecentesca Fontana dei Minatori. Era questo il punto di refrigerio per i lavoratori del più grande bacino minerario del Mezzogiorno.

Da Pazzano una breve deviazione porta a Bivongi, punto di partenza per due belle escursioni. Seguendo la segnaletica che indica Bagni di Guida si può arrivare al punto di partenza per la cascata del Marmarico, tra le più alte d’Italia: un salto di 120 metri forma tre piccoli laghi tra costoni rocciosi, gole, faggi, lecci e macchia mediterranea. Ci si può arrivare a piedi in due ore di faticoso cammino oppure si possono utilizzare le jeep del ristorante Vecchia Miniera, situato all’inizio della strada per i Bagni di Guida sui ruderi di un lavatoio dove si ripuliva il molibdeno.

Il minerale arrivava sui carrelli dalle vicine miniere e poi, dopo essere stato privato dalle scorie, veniva trasportato con muli e carri alla fonderia di Ferdinandea. All’antico centro termale dei Bagni di Guida si arriva percorrendo con attenzione uno stretto e impervio sterrato sconsigliato ai camper. Sulle rive del torrente c’è la vecchia casa-albergo, in funzione sino agli anni ’50, e accanto il piccolo edificio che ospita le vasche dalle miracolose acque sulfuree in grado di curare reumatismi e malattie della pelle. Oltre ancora, lungo il corso d’acqua, appare la vecchia centrale idroelettrica che dal 1913 al 1952 fornì la luce a Bivongi, Pazzano e Stilo.

Il millenario monastero ortodosso di rito rumeno di San Giovanni Theristis, nei pressi di Bivongi
Il millenario monastero ortodosso di rito rumeno di San Giovanni Theristis, nei pressi di Bivongi

Da Stilo a Monte Consolino

L’altra deviazione da Bivongi, percorrendo per 8 chilometri una spettacolare strada, incontra prima i resti della Grangia dei Santi Apostoli su un cocuzzolo e poi, isolato fra i monti, il millenario monastero di San Giovanni Therestis, dove vive in lavoro e preghiera una piccola comunità di monaci di rito ortodosso rumeno. Caratterizzata da elementi architettonici bizantino-normanni, la bella struttura è scampata al furioso incendio dello scorso anno: le aride colline annerite ricordano l’evento.

Una volta fatto ritorno a Pazzano, si giunge in pochi minuti a Stilo, città natale di Tommaso Campanella. Da visitare il duomo o Chiesa Matrice, attualmente in fase di restauro, con lo splendido portale trecentesco, il complesso abbaziale del ‘600 (anch’esso intitolato a San Giovanni Therestis) e la millenaria Cattolica, raro esempio di tempio bizantino, con cinque caratteristiche cupolette e tracce di affreschi medioevali all’interno.

Poco prima della chiesa, in corrispondenza del piazzale di fronte al cimitero, parte il sentiero che sale in meno di un’ora ai resti del castello normanno, situato in formidabile posizione sulla cresta rocciosa. Doveva essere un’impresa anche la sola idea di assediare un simile maniero, voluto da Ruggero II nella prima metà del XII secolo proprio sulla cima del Monte Consolino.

Da quassù la piana di Stilo s’allunga con la fiumara fino al mare, mentre dall’altra parte l’arido paesaggio montano fa apparire la chiesa di San Giovanni Therestis un puntino stritolato dai monti. È un paesaggio traforato di grotte che ispira misticismo, una Terrasanta calabrese dove nei secoli vissero in solitudine generazioni di eremiti.

I ruderi del castello normanno di Stilo
I ruderi del castello normanno di Stilo

Monasterace Marina

Tornati in paese, una ripida discesa e poi un lungo rettilineo portano alla meta finale, Monasterace Marina. Oltre il curvone della strada provinciale, tra la ferrovia e il blu del mare, appaiono le scenografiche fondamenta di un tempio dorico risalente al V secolo a.C.: tutto quel che resta dell’antica città di Kaulon.

Merita una visita il vicino museo archeologico, che tra numerosi motivi d’interesse annovera un mosaico policromo risalente al III secolo a.C. e raffigurante un drago marino. Durante il mio passaggio, lo scorso anno, era appena rimbalzata la trionfante notizia del ritrovamento di un altro mosaico con un secondo drago più grande, ancora in fase di studio: il sito è infatti stato subito coperto e gli scavi sono ricominciati solo nel mese di giugno.

Le fondamenta del tempio di Kaulon, nei pressi di Monasterace Marina
Le fondamenta del tempio di Kaulon, nei pressi di Monasterace Marina

Poco prima di Monasterace si può far sosta all’agriturismo Villa Vittoria, immerso nella natura: i camper sono benvenuti, e si può sostare gratuitamente nel delizioso giardino in cambio solo dell’acquisto di qualche barattolo di squisita marmellata o di un pasto a base di piatti tipici. Una nuotata nella piscina (una macchia azzurra in mezzo al giallo dei limoni, con le montagne in lontananza e un probabile concerto di cicale), il tempo di rivestirmi e mi sono trovato al cospetto della specialità locale: penne alle melanzane. Nere, nerissime. Come il carbone.

Testo e foto di Paolo Simoncelli

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