Balene e margherite

I dolci pendii delle colline fra Parma e Piacenza, le friabili rocce, gli alvei di fiumi e torrenti nascondono scheletri fossili e conchiglie vecchie di milioni di anni. Andiamo a sfogliare dal vivo questo libro illustrato di geologia e di paleontologia visitando la riserva del Piacenziano e il parco dello Stirone.

Indice dell'itinerario

In geologia il tempo ha parametri grossolani, spesso leggermente inquietanti. Lo si misura in base a tanti fattori, e siccome si tratta di periodi lunghissimi finiscono per essere difficilmente comprensibili se visti con gli occhi di chi vive al massimo cent’anni o poco più e conosce solo qualche migliaio di anni di storia della propria specie. I geologi e i paleontologi devono invece barcamenarsi con distanze temporali spaventose, e così al profano capita di leggere di milioni di anni come se fossero infinitamente più brevi, quasi nell’ordine di giorni o mesi, dimenticando troppo spesso che sono mille, duemila, tremila volte il tempo trascorso fra l’impero romano e il XXI secolo.
Si comprende allora il perché di certi nomi complicati e di certe sovrapposizioni: i periodi geologici, infatti, hanno la caratteristica della matrioska, la tipica bambolina russa in cui ognuna ne contiene un’altra, in un gioco che sembra senza fine. D’altro canto è difficile non aver voglia di dividere in unità minori delle datazioni così estese. Secondo questa logica gerarchica si sono formate delle convenzioni, ad esempio il Codice Italiano di Nomenclatura Stratigrafica, che ha previsto la sottomisura cosiddetta età, che a sua volta si divide in piani: un giacimento fossile racchiuso in un certo periodo di tempo e in una determinata area costituisce un piano stratigrafico e da quella zona prende il nome.
Questa premessa per dire che poche località possono vantare il privilegio concesso a Piacenza, ovvero quello di aver battezzato un intero arco di tempo: il Piacenziano, che si estende all’incirca fra due e tre milioni e mezzo di anni fa. Il primo a coniare questo termine fu il geologo svizzero Karl Mayer, nel 1858, indicando così le argille grigio-azzurre situate nei pressi di Castell’Arquato. In seguito fu più volte ripreso fino all’accettazione formale che risale al 1967, quando il Piacenziano è divenuto ufficialmente un piano del Pliocene Inferiore, che oggi si chiama Zancleano. E se ora vi chiedete qual è l’effettivo interesse di questa informazione, la risposta è semplice: perché tutto questo si può capire e apprezzare in prima persona in un’area protetta istituita nel 1995, la Riserva Naturale Geologica del Piacenziano.
A dire il vero è un parco un po’ anomalo dal momento che, pur estendendosi su oltre 300 ettari, è frammentato in più postazioni collocate apparentemente a caso nella campagna, dove si mescola a castelli, paesi e vigneti. Sono in tutto nove le aree che lo compongono, distribuite lungo le valli dei torrenti Arda, Chero, Chiavenna, Ongina e Vezzeno. Come è facile intuire, nel sottosuolo c’è molto più di quello che è stato scoperto: ma non si può fare altro, in paleontologia, che aspettare il naturale affioramento dei reperti, dal momento che è irragionevole scavare a caso. Trattandosi di un terreno fortemente soggetto all’erosione, con pendici spesso molto ripide costituite da calanchi friabili, ci pensano le piogge a dilavare e a scoprire, tanto che basta un colpo d’occhio per riconoscere le aree soggette a parco, anche senza essere un esperto.
Sul posto si arriva comodamente dall’Autosole, uscendo a Fiorenzuola d’Arda e superando la Via Emilia in direzione di Castell’Arquato. Raggiunto il paese si incontrano ampi parcheggi lungo l’Arda, dove si pernotta con il camper senza particolari difficoltà; e l’esperienza geologica inizia proprio da qui osservando, dal ponte che conduce al centro storico, il torrente con le pareti erose che è già la prima stazione del parco. A destra del ponte e fino alla deviazione per Frantoio di San Cassano si stende una zona di importanti ritrovamenti fossili. Subito a sinistra del ponte, invece, c’è un piccolo chiosco di informazioni turistiche dove troverete guide competenti in grado di accompagnarvi nell’alveo e farvi notare gli strati pieni di conchiglie fossili (ma attenzione, la raccolta è rigorosamente vietata). C’è di tutto ma più che altro molluschi, le cui forme a spirale o bivalvi rappresentano i fossili più diffusi sul pianeta: un guscio infatti resiste al tempo perfino più a lungo di uno scheletro. Qui sono state trovate anche conchiglie a forma di cuore, più rare, e crostacei, fino a reperti di grandi dimensioni come balene e balenottere, rinvenuti nell’impressionante voragine vicino a Montezago – da allora detta Buco della Balena – come pure nei calanchi di Diolo o sulle pendici del Monte La Ciocca. Prima di andare sul campo, un’ottima idea è quella di dedicarsi a un primo ma significativo assaggio dell’argomento nel Museo Geologico Provinciale di Castell’Arquato: si trova all’interno della città vecchia, oltre l’arco d’ingresso, in quello che un tempo era il cinquecentesco Ospitale Santo Spirito ed è ben segnalato. La valida impostazione didattica si serve di pannelli esplicativi comprensibili anche ai giovanissimi visitatori, ma soprattutto di una serie di reperti spettacolari, come i resti della balenottera di Monte Falcone e l’intero cranio ritrovato sul Rio Carbonari. L’approccio è indispensabile per rendersi conto che le rocce consumate dai millenni, da cui spuntano timidamente piccole conchiglie levigate e candide, sono solo una facciata – non tutti, del resto, possono pretendere di trovare una balena nel bel mezzo di un campo.
Iniziamo ora l’esplorazione dal vivo, lungo un itinerario che si rivela spettacolare anche senza fossili. L’erosione ha infatti giocato le sue carte migliori e se ne vedono chiaramente gli effetti poco a sud del paese, sul versante bianco e tormentato del Monte Padova dove, nella prima metà dell’800, furono trovati i resti di un delfino e, più di recente, uno dei cetacei che abbiamo visto al museo di Castell’Arquato.
Ma si deve arrivare a Monte Giogo per conoscere la faccia più bella del parco, quello che la gente del posto chiama l’Anfiteatro. La candida parete sovrasta il paese di Lugagnano Val d’Arda ed è visibile con facilità da ogni parte: il miglior colpo d’occhio è quello che si gode dalla strada tortuosa che porta a Vernasca, e bastano pochi tornanti per ammirare tutta la selvaggia bellezza di questo ambiente.
Da Lugagnano si può raggiungere il Buco della Balena, come ormai lo chiamano tutti, anche se il nome ufficiale di Voragine di Montezago rende meglio l’idea di cosa ci aspetta. Qui le strade si fanno piuttosto anguste e gli spostamenti presentano qualche difficoltà per i mezzi più ingombranti, ma questa non è una zona fortemente turistica e il traffico, anche nei giorni festivi, è piuttosto modesto. Dall’abitato si prende la deviazione per Chiavenna Rocchetta e, dopo un paio di chilometri, quella sulla sinistra per Osteria di Montezago; la strada sale per un po’ e, quando arriva a scollinare, una sterrata sulla destra in piena curva concede un ridotto parcheggio. Non ci sono cartelli di sorta, il luogo va riconosciuto solo da questa descrizione e, se la strada comincia a scendere, vuol dire che si è saltato il punto e che bisogna tornare indietro (la mancanza di indicazioni la dice lunga su quanta gente frequenti il luogo).
Lasciato il mezzo, ci si avvia a piedi lungo una stradina bianca e dopo poche decine di metri, al bivio, si prende a destra lo stradello che scende; c’è anche un piccolo cartello che indica il Buco della Balena, ma non è molto chiaro. Attenzione, a questo punto, a muoversi con la massima prudenza perché non si può contare sul alcun tipo di recinzione o di sostegno, e il termine di voragine è quanto mai appropriato: bambini e animali domestici vanno tenuti ben stretti perché il rischio di cadere è reale (se soffrite di vertigini vi sconsigliamo l’esperienza), ma l’aspetto impressionante della gola vale assolutamente la visita. Tornati a Lugagnano, si prosegue verso la valle dell’Ongina per raggiungere i dolci calanchi di Monte La Ciocca, altra importante stazione di ritrovamenti, scegliendo una fra le varie alternative – tutte tortuose e strette – che collegano le due località. In qualche caso è proibito l’accesso ai mezzi pesanti e sono vincoli da non sottovalutare, perché il fondo è in buone condizioni ma la larghezza è limitata perfino per le auto (chi sosta a Castell’Arquato potrebbe arrivare in bicicletta e i buoni camminatori persino a piedi, visto che la distanza è di circa 5 chilometri). Il paesaggio è quello di una campagna singolare, indubbiamente florida, con villette e vigneti lavorati con cura, non certo agricoltura di sopravvivenza: un giardino dai colori e dalle linee gradevoli, caratterizzato dal silenzio e dalla quasi totale assenza di traffico, in una quiete che sembra irreale. Lungo la strada sarà possibile incontrare delle pareti bianche, dilavate: basta fermarsi e, in quella che un tempo era argilla o sabbia, si può trovare scritta la storia del fondale oceanico di allora. Conchiglie, a decine, visibili a chiunque, regalano non poca soddisfazione anche ai meno sensibili all’argomento.
In questa specie di libro di geologia scritto nella roccia è interessante anche la lettura della sequenza climatica che descrive l’alternanza di periodi caldi, con fossili di specie chiaramente tropicali, a periodi freddi, le glaciazioni, con strati di fossili tipici dei mari del nord e pollini di conifere settentrionali, permettendo di datare le epoche con una certa precisione. Anzi è proprio grazie a questi affioramenti, sia vegetali che animali, che oggi è possibile tracciare una mappa dei periodi climatici del passato: il freddo e il caldo, infatti, lasciano pochi segni sulla pietra ma modificano in maniera determinante l’ambiente vitale. Non è nemmeno raro che la medesima zona, se particolarmente adatta, conservi resti appartenenti a periodi freddi e caldi a pochi metri di distanza gli uni dagli altri, anche se lontani migliaia di anni sul piano della stratificazione sedimentaria.

I mille volti del fiume
Subito a est dei calanchi di Monte La Ciocca ha inizio il territorio del Parco Fluviale dello Stirone. Attraversando il ponte poco dopo il bel castello di Vigoleno si entra nella provincia di Parma, come si intuisce dai cartelli che magnificano l’inizio della zona di produzione del Parmigiano Reggiano. In realtà dal punto di vista geologico quest’area forma un tutt’uno con la precedente, e anche lungo le pareti che chiudono il corso dello Stirone sono stati ritrovati numerosi fossili, soprattutto all’altezza di Scipione Ponte.
L’area protetta copre circa 15 chilometri del corso del fiume, per un’estensione di 1.800 ettari (di cui 50 a protezione integrale). E’ un parco morfologicamente diverso da tanti altri alvei fluviali che caratterizzano la Pianura Padana: anziché l’ampia cassa di espansione in caso di piena, infatti, lungo lo Stirone abbiamo spesso a che fare con un greto di tipo erosivo in cui il fiume scorre profondamente incassato. Si tratta di un’erosione costante, sempre attiva, più veloce di quanto si immagini nel modellare il territorio: nei pressi di San Nicomede, ad esempio, fino a pochi decenni fa c’erano cascate e salti d’acqua che oggi sono scomparsi, cancellati dall’incessante lavoro del fiume e sostituiti da un tortuoso canyon.
Questo processo ha ovviamente portato alla luce, nel corso del tempo, anche i numerosi fossili inglobati nel terreno delle sponde: gli esemplari migliori si possono oggi osservare nei musei di Salsomaggiore Terme e Fidenza (anche qui lo scavo e la raccolta sono permessi solo a scopo di studio, quindi non consentiti a turisti e collezionisti privati). Il tratto più spettacolare è visibile subito a sud di San Nicomede, deviando verso il fiume in località Predella. Trattandosi di una strada stretta, fra i campi, che termina in un piccolo parcheggio dove è praticamente impossibile fare inversione, è senz’altro preferibile raggiungere il posto a piedi, anche perché si tratta di poche centinaia di metri. Il parco dello Stirone offre altrove ottimi parcheggi lungo il corso, con aree picnic attrezzate dove si può anche pernottare in tutta tranquillità; volendo, si può parcheggiare vicino alla chiesa di San Nicomede.
La visita alla gola è utile per capire come l’acqua abbia modificato non solo l’alveo, ma la conformazione stessa del territorio. Le scarpate friabili, scalzate alla base ad ogni piena, tendono a franare nel fiume la cui linea muta continuamente; soprattutto il lato esterno di un meandro, dove la forza centrifuga è maggiore, può spostarsi anche in maniera visibile da una stagione all’altra. Tutto quello che la sponda contiene finisce per depositarsi poi nelle anse più calme, dove si trova di tutto: il tratto fra San Nicomede e Laurano è infatti conosciuto con l’emblematico nomignolo di Museo all’Aperto.
Ma il parco non è soltanto fossili e geologia, perché anche gli altri regni della natura hanno molto da raccontare. Le sponde verticali sono luogo di nidificazione per il martin pescatore, il gruccione, il topino, tutte specie che scavano il nido nella terra morbida che costeggia i corsi d’acqua. Lo Stirone, oltretutto, offre un contesto particolarmente accogliente, con lunghi tratti caratterizzati da sponde ciottolose facilmente accessibili e un’acqua che farebbe l’invidia di un torrente di montagna. A ridosso del suo corso ci sono molti sentieri facili da percorrere e nei tratti più pianeggianti, dove la franosità delle sponde è minore, compare il bosco ripariale con pioppi, salici e ontani, tipici delle aree fluviali di pianura, almeno finché l’uomo non li abbatte per far posto alle coltivazioni. Questo habitat ospita un sottobosco e una vita animale diversissimi da quelli dei boschi collinari: le stesse piante che fioriscono sul greto sono particolari, specializzate e per la maggior parte effimere, nel senso che devono sbrigarsi a sbocciare prima che una nuova piena le spazzi via. Questo spiega le impressionanti distese fiorite che a volte caratterizzano le sponde dei corsi d’acqua: se le condizioni sono buone non c’è tempo da perdere perché il fiume è un vicino scontroso, imprevedibile, spesso spietato.
Lo stesso errore non dovrà commetterlo il camperista. I comodi punti di sosta sono appena un metro al di sopra del livello dell’acqua, e prima di pernottare sarà dunque opportuno ascoltare le previsioni del tempo cercando un posto più elevato per la notte se sono previsti temporali. Poco lontano le sponde erose e tormentate ci dicono che lo Stirone, ora placido e tranquillo, a volte sa essere anche una forza della natura.

PleinAir 428 – marzo 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

________________________________________________________

Tutti gli itinerari, i weekend, i diari di viaggio li puoi leggere sulla rivista digitale da smartphone, tablet o PC. Per gli iscritti al PLEINAIRCLUB l’accesso alla rivista digitale è inclusa.

Con l’abbonamento a PleinAir (11 numeri cartacei) ricevi la rivista e gli inserti speciali comodamente a casa e risparmi!

photo gallery

dove sostare

tag itinerario

cerca altri itinerari

Scegli cosa cercare
Viaggi
Sosta
Eventi

condividi l'articolo

Facebook
WhatsApp

nuove idee di viaggio