Archeologia elettrica

Grazie alle tasse comunali pagate dalla centrale Enel di Montalto di Castro, il parco di Vulci prospera nella ricerca e nelle attività turistiche. E offre l'occasione di visitare una delle mete più affascinanti dell'Etruria laziale.

Indice dell'itinerario

Un principe etrusco è stato tra i padri di Roma. Si chiamava Mastarna e divenne il sesto re dell’Urbe con il nome di Servio Tullio, ma era nato a Vulci, città dell’Etruria costiera. Un affresco del IV secolo a.C. lo raffigura in battaglia a fianco dei fratelli Aulo e Celio Vibenna, suoi alleati nella conquista del trono.
Il dipinto fu staccato nel 1863 dalla Tomba François (dal nome dell’archeologo che l’aveva scoperta) costruita per la famiglia etrusca dei Saties su una parete di tufo affacciata sulla Fiora, il fiume che scende dal Monte Amiata al Tirreno. Sulla riva opposta era Vulci, difesa da mura imponenti; nei pressi sorgeva la Cuccumella, che con i suoi 75 metri di diametro è il più grande tumulo dell’Etruria, anche se oggi rimane solo una parte dell’imponente struttura originaria.
La rimozione degli affreschi è stata soltanto una tappa del saccheggio di Vulci. La sua fama ebbe inizio nel 1828, quando l’aratro di un contadino sprofondò in una tomba. Gli scavi divennero febbrili, Vulci divenne famosa come Ercolano e Pompei annotò nel 1844 George Dennis, console britannico a Roma e grande appassionato di storia e archeologia, raccontando poi di come gli operai, sorvegliati da un guardiano armato, aprissero le tombe a picconate, portassero via vasi intatti e metalli preziosi e infine demolissero i sepolcri per non sottrarre terreno all’agricoltura. Siamo al più puro vandalismo si scandalizzò l’inglese.
«Oggi i corredi delle tombe di Vulci sono sparsi nei musei di mezza Europa, il Louvre, il British Museum, i Musei Vaticani. La Filatrice, uno dei capolavori di Prassitele, è a Monaco di Baviera» spiega Emanuele Eutizi, anche lui archeologo e direttore del Parco Archeologico di Vulci. «Gli scavi scientifici sono iniziati solo nel secondo dopoguerra. Oggi Vulci è una miniera: stiamo lavorando in otto siti, potremmo andare avanti per decenni».
Un altro inglese, nel 1927, si era innamorato della Maremma laziale. C’è qualcosa di inquietante a Vulci, qualcosa di molto bello scrisse nel suo Paesi etruschi David Herbert Lawrence (oggi ben più celebre per L’amante di Lady Chatterley). Ma Vulci non è mai diventata famosa: solo una piccola parte dei visitatori dei monumenti etruschi di Tarquinia, di Cerveteri e di Volterra devia dalla Via Aurelia per visitare l’antica città sulla Fiora.
Stessa sorte, almeno fino ad oggi, è toccata a Montalto di Castro, avamposto del Lazio al confine con la Maremma toscana. A rivelarne l’impianto medioevale è la mole del Castello Guglielmi, ma a renderla famosa negli anni Settanta è stata la centrale nucleare contestata dal movimento ambientalista, bloccata dal referendum del 1986 e poi trasformata dall’Enel nel più potente impianto termoelettrico italiano. Chi viaggia tra Roma e Grosseto si trova davanti alle ciminiere della struttura e alle linee dell’alta tensione che portano la sua energia in mezza Italia. «Qui non siamo in Toscana e si vede – allarga le braccia Salvatore Carai, sindaco di Montalto di Castro – il nostro territorio è agricolo, i nostri meloni e i nostri asparagi sono giustamente famosi, le sessanta o settanta famiglie di origine sarda continuano a occuparsi delle greggi. D’estate, vista la buona fama delle spiagge, la popolazione sale da 7.800 a 40.000 persone».
Anche la centrale, però, contribuisce all’economia della cittadina. «Ogni anno l’Enel paga al Comune circa 8 milioni di euro di ICI, e molti di questi fondi vanno al parco archeologico» conclude il sindaco. E così, grazie alla centrale, l’area archeologica di Vulci è una delle più ricche d’Italia: un piccolo miracolo che avviene proprio nel nome del principe etrusco al quale è intitolata la società per azioni (controllata dallo stesso Comune di Montalto di Castro) che dà lavoro a 80 persone e gestisce i 900 ettari del parco. Con i fondi pagati dall’Enel gli archeologi della Mastarna SpA possono scavare per buona parte dell’anno e hanno a disposizione un moderno ed efficiente laboratorio di restauro.
Sul versante turistico, i visitatori – circa 20.000 all’anno dal 2003 in poi – trovano sentieri segnati e ben tenuti, visite guidate, varie iniziative organizzate e, nella bella stagione, gli spettacoli in notturna che si tengono nella zona archeologica. «Gli studenti in visita al parco possono anche partecipare al lavoro degli archeologi sul terreno e alla pulitura dei reperti» spiega Annamaria Tocci, responsabile del laboratorio di restauro.

Poco appariscenti a prima vista, gli scavi a poca distanza dalla Fiora sono una miniera di sorprese. «Nel VI secolo a.C. Vulci era tra le città più ricche dell’Etruria. Le sue navi approdavano in un porto fluviale che stiamo riportando alla luce, il suo territorio comprendeva l’Argentario e le miniere del Monte Amiata» spiega il direttore Emanuele Eutizi. «Nel V secolo, quando gli Etruschi persero il controllo del Tirreno, a Vulci prese il potere un’aristocrazia di proprietari terrieri che continuò a costruire tombe e templi. E nel 280 a.C., con la conquista da parte di Roma, sorsero nuovi monumenti».
La magnifica passeggiata tra le rovine di Vulci racconta dunque di due civiltà – quella etrusca e quella dell’Urbe – che sono riuscite a integrarsi. Le strade lastricate e gli edifici in mattoni della tradizione romane si affiancano alle scalinate in tufo di un grande tempio e alle tombe scavate nella roccia delle necropoli dell’Osteria, di Ponte Rotto e di Cavalupo. Ma la transizione dall’Etruria a Roma non fu pacifica: fuori dalla porta occidentale di Vulci è stato riportato alla luce un bastione triangolare costruito in fretta e furia intorno al 290 a.C. «Doveva riparare la porta dalle macchine da guerra romane: non c’è riuscito» conclude Eutizi.
Il fascino di questo territorio non si ferma alle rovine della città. A nord dell’abitato antico, il canyon inciso nei millenni dalla Fiora è scavalcato dal magnifico Ponte dell’Abbadia, nato come acquedotto pure questo etrusco e trasformato dai Romani in un ponte. Il vicino castello, affiancato nel Medioevo da un’abbazia, alloggiò fino al 1870 i gendarmi dello Stato Pontificio e attualmente ospita un museo.
E la Fiora non è solo uno sfondo. Dall’ingresso del parco un altro splendido viottolo scende al laghetto del Pellicone, chiuso da alte pareti di basalto e nel quale il torrente si getta con una spettacolare cascata. Poco più a monte, un vasto bacino artificiale (riecco l’Enel!) è tutelato da un’Oasi WWF che ospita cinghiali, istrici e molte specie rare di uccelli, mentre la lontra – rarissima nei fiumi italiani – è ancora segnalata nel lago e nel corso d’acqua. A fermarsi per qualche minuto, guardandosi intorno, pare quasi di essere tornati indietro di venticinque secoli: e viene da pensare che qui, anche oggi, Mastarna non si sentirebbe fuori posto.

PleinAir 402 – gennaio 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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