Ande misteriose

Alla scoperta delle culture autoctone della Bolivia fra storia, tradizione e folklore.

Indice dell'itinerario

La regione boliviana di Sajama, oggi protetta da un parco nazionale, si trova nella parte occidentale del paese, dove la barriera disegnata dalle imponenti vette andine ha permesso all’antico popolo degli Aymara di conservare le proprie tradizioni. Ed è qui, alle pendici del solitario vulcano che da millenni domina sullo sfondo, che il paesaggio sembra carico di un’energia misteriosa, dando allo stesso tempo l’impressione che tutto sia rimasto in una dimensione intatta e remota. Nonostante l’importanza archeologica del territorio, è un luogo ancora oggi poco esplorato – la prima ascensione documentata sul vulcano venne effettuata nel 1939 – e ancor meno conosciuto dal turismo internazionale.
Alla suggestione di questi scenari contribuiscono, e non poco, le cosiddette Linee di Sajama: poste a una quota compresa fra i 3.800 e i 4.300 metri, si estendono su una superficie di circa 22.000 chilometri quadrati (sedici volte quella interessata dalle ben più famose Linee di Nazca). Alcune raggiungono i 20 chilometri di lunghezza e hanno un andamento perfettamente rettilineo, mentre la larghezza sfiora i 4 metri: una precisione impressionante se si pensa che risalgono a svariate centinaia di anni fa. Chiamate in lingua aymara t’aki e ceque, parole che significherebbero appunto linea o solco, sono state scoperte verso la fine degli anni ’30 dall’antropologo francese Alfred Metraux, ma per avere idee più precise su come furono realizzate si è dovuta attendere la spedizione di un gruppo di scienziati della Pennsylvania, effettuata nel 2003. In base ai loro studi si è riusciti a stabilire che sono state tracciate semplicemente estirpando la vegetazione presente sul suolo, mentre in altri casi è stata utilizzata una zappa per rimuovere le rocce ossidate, che offrivano un evidente contrasto rispetto al terreno circostante. Il metodo utilizzato includeva anche il lavoro notturno: nelle ore di buio il percorso veniva segnalato accendendo una serie di fuochi e, dalla cima delle colline, si potevano allineare in modo molto più chiaro i vari punti della stessa retta. La presenza di marcati solchi ad U indicherebbe invece che venivano adoperate anche per gli spostamenti a piedi da una parte all’altra della regione.
C’è poi da dire che la natura ha fatto la sua parte: le basse temperature e il clima estremamente asciutto (la mancanza di umidità rende assai nitide le foto satellitari) hanno infatti contribuito a preservare le Linee di Sajama fino ai giorni nostri. Grazie a questa concomitanza di fattori, che mantengono ben visibile la composizione, è stato possibile comprendere altri aspetti di queste singolari testimonianze. Solo in pochissimi casi le linee si presentano isolate, mentre la maggior parte delle volte appaiono in gruppi da tre a dieci, formando reti a raggiera con un punto di convergenza; quest’ultimo si trova immancabilmente ai piedi di una collina o di una montagna e ha la forma di una piazzola circolare di qualche decina di metri di diametro, al cui centro doveva sorgere un edificio di culto. In altri casi le rette collegano le aree circolari alla sommità di un’altura, e anche questo andamento sembrerebbe avere uno scopo religioso.

L’equilibrio dell’universo
Le Linee di Sajama sono solo una delle tante peculiarità della Bolivia, che ha moltissimo da offrire anche sul versante antropologico. Ci spostiamo dunque a nord del Lago Titicaca, nella provincia di Bautista Saavedra, dove si trova la comunità dei Kallawaya che è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità. Nel periodo di massimo splendore, molto prima della dominazione inca, questo popolo controllava un vasto territorio compreso fra le vette delle Ande e le valli dell’altopiano: ma la sua più interessante caratteristica consiste nel fatto che la comunità era formata perlopiù da guaritori, i quali effettuavano lunghissimi viaggi a piedi dagli aridi altipiani alle zone subtropicali per soccorrere gli ammalati. I rimedi che utilizzavano erano a base di erbe medicinali, che venivano benedette per assicurarsi il favore degli dèi e conservate nella chuspa, una borsa che ne manteneva intatte le proprietà.
Anche se oggi sono poco più di un centinaio i Kallawaya che ancora praticano questa antichissima medicina naturale, le loro conoscenze (trasmesse oralmente di generazione in generazione) rappresentano un immenso bagaglio culturale di cui avvalersi anche nell’approccio terapeutico moderno. Per fare qualche esempio, secondo molti esperti furono proprio i guaritori andini a scoprire l’uso della corteccia secca dell’albero di cinchona dalla quale si ricavava il chinino, indispensabile per curare la malaria e altre malattie tropicali. Altri tipi di erbe e radici avevano invece effetti anestetici, che verso la metà dell’800 furono introdotti nella medicina occidentale per svolgere la stessa funzione.
Ma il più profondo significato della cultura dei Kallawaya non consiste semplicemente nelle pratiche curative, bensì nel corpus di miti e rituali della cosiddetta cosmovisione andina. Questa si fonda sui due concetti principali del cielo e della terra, che governano l’armonia dell’universo: solo dal loro equilibrio è possibile avere la giusta alternanza di pioggia e sole che favoriscono la crescita delle piante medicinali, ed è perciò fondamentale mantenere una condotta rispettosa nei confronti dell’ambiente per far sì che il rapporto tra uomo e natura si mantenga sotto il segno dell’alleanza.

Testo e foto di Mauro Nogarin

PleinAir 451 – febbraio 2010

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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