Alle porte del cielo

Un indimenticabile viaggio fai-da-te incontro alla meraviglia di luoghi e paesaggi del Piccolo Tibet indiano.

Indice dell'itinerario

Zaino, autobus, alberghetti e poi si vive alla giornata: così è stato il nostro primo viaggio in India, diciotto anni fa. Questa volta, invece, ci siamo serviti di un’agenzia locale con cui, via Internet, abbiamo messo a punto l’itinerario; e con noi sono i nostri ragazzi di 15 e 14 anni, che in questo modo stanno iniziando a conoscere il mondo.
Arrivati in aereo a New Dehli, proseguiremo via terra fino ai deserti che toccano il cielo del Ladakh, il Piccolo Tibet indiano. Un treno ci porterà alle pendici della catena himalayana, dove troveremo un’auto con la quale saliremo i valichi dell’Himachal Pradesh e del Kashmir, scenderemo la valle dell’Indo e toccheremo le pendici del mitico Karakoram, ai confini dello Xinjiang cinese: 2.660 chilometri in poco più di due settimane.
Ranvir e la sua Toyota Qualis, di produzione locale, ci aspettano alla stazione di Chandigarh, la moderna capitale del Punjab disegnata da Le Corbusier negli anni ’50. Ranvir è un signore taciturno vestito di bianco che si occupa solo di condurre l’auto: da queste parti, se volete un vero e proprio accompagnatore, dovete chiederlo espressamente e sarà una persona diversa dall’autista, mentre noi preferiamo scoprire da soli le realtà locali spulciando i manuali e parlando con la gente.
Oltre Chandigarh, l’Himalaya sovrasta ripido e lussureggiante le pianure del Punjab. Siamo nell’Himachal Pradesh, il territorio montagnoso tra la pianura indiana e i deserti di alta quota del Ladakh: le sue zone di confine con la Cina (Lahul, Spiti e Kinnaur) sono aperte agli stranieri solo dal 1992 e richiedono permessi speciali per l’accesso. Qui il turismo internazionale è ancora sconosciuto e le infrastrutture – efficienti e pulite – sono minime e orientate al turista indiano. Shimla, a 2.200 metri di quota, è il centro più importante della regione e fino al 1948 era la capitale estiva dell’India britannica: quando il clima monsonico di Delhi diventava insopportabile, i funzionari governativi raccoglievano i loro faldoni e si trasferivano qui per mesi. Il centro cittadino mostra case a graticcio e una cattedrale neogotica che contrastano con i negozietti colorati e le scimmie che corrono sui tetti; una fitta foresta di cedri nasconde gli alberghi, costruiti in un curioso stile indo-britanno-tirolese.
La strada si snoda su crinali esposti e tortuosi fino alla discesa verso il fiume Sutlej, che ruggisce minaccioso nel fondovalle. Sul lato sinistro della valle corre l’Hindustan Tibet Highway, una strada costruita nel 1850 dagli inglesi per raggiungere il Tibet (e che tornò utile per l’invasione del 1904): a dispetto del nome roboante, è formata da un’unica corsia asfaltata e da due larghe banchine in terra battuta. Gruppi di uomini, donne in sari e ragazzini spaccano pietre per il fondo stradale, lavori senza tempo e senza scadenze che ci ricordano le teorie di Gandhi secondo le quali l’India ha bisogno di lavoro per tutti e non di macchine che fanno risparmiare manodopera.
Arriviamo a Sarahan quando ormai scende la sera. Dal Bimakali, tempio della dea Kalì, si diffonde nell’aria il canto dei monaci: l’edificio, vecchio di otto secoli, sembra un fantastico albergo alpino con tetti spioventi, pareti in legno, verande, torrette, e solo i dettagli – come le porte in argento e le statue di tigre – ci ricordano che tutto questo è parte della multiforme cultura indiana. Noteremo le stesse caratteristiche architettoniche mentre saliamo dai 1.300 metri del fondovalle ai 3.100 del Jalori Pass, attraversando risaie, terrazzamenti coltivati, prati, boschi di cedri deodara e villaggi con case provviste di tetti in pietra e ballatoi in legno, dove è sempre una sorpresa scoprire un tempietto hindu seminascosto fra le abitazioni.
Manali, alla testata della Kullu Valley, è la città più importante della zona e anche un rinomato centro turistico. Secondo la tradizione qui sbarcò Manu, l’equivalente indiano di Noè, dopo il Diluvio Universale; ma la fama recente del posto è legata agli anni ’70, quando il turismo freak lo considerava una sorta di Amsterdam dell’Himalaya per la facilità con cui vi si poteva trovare la marijuana. Manali è anche la porta di accesso al Ladakh e alla valle di Spiti, territori che confinano con il Tibet e ne condividono l’ambiente e la popolazione. Le strade che oggi conducono a questi luoghi seguono antiche vie carovaniere, scavalcando valichi di oltre 4.000 metri, e sono state realizzate per il supporto logistico dei militari che presidiano i confini con Cina e Pakistan: solo una manutenzione perenne e titanica impedisce che la natura, nel giro di qualche anno, le riporti all’antico stato di mulattiere. Il primo valico che incontriamo, a quota 3.987, è il Rohtang La il cui nome ricorda tristemente i viaggiatori del passato che qui sono morti per congelamento. Lungo la strada, le bancarelle espongono la loro mercanzia d’occasione: abiti pesanti, scarponi, improbabili tute da sci.
La Spiti Valley, parallela al confine con il Tibet, conserva intatta la propria cultura grazie alle difficoltà di accesso dovute alla neve e alle frane che la isolano per mesi: dopo l’invasione cinese del Tibet e la sua modernizzazione forzata, è qui che si può ancora incontrare l’autentica atmosfera del buddismo tibetano. Il passo del Kunzum La, a 4.551 metri, si apre verso una cornice di montagne imponenti e coperte di ghiaccio, accogliendo il viaggiatore con un piccolo tempio e uno sventolare di bandierine colorate che, secondo la tradizione, portano lontano le preghiere; oltre il valico, il paesaggio della vallata offre ghiaioni sconfinati, fiumi larghissimi, coltivazioni di un verde brillante, cespugli di rosa webbiana, ardite passerelle sospese. Numerosi sono i gompa, i monasteri buddisti abbarbicati alla montagna, alcuni molto piccoli e modesti, altri grandi e importanti sia per il valore religioso che per i contenuti artistici, e ogni visita è un’emozione anche per le difficoltà del percorso, che affrontiamo confidando nella perizia di Ranvir. Tabo, a 3.050 metri, è celebre per il grande monastero fondato nell’anno 996: un monaco ci guida nella visita del complesso (che diversamente dagli altri sorge nel fondovalle ed è formato da costruzioni isolate di mattoni crudi e fango) dove ci sorprendono la ricchezza e la qualità di affreschi, soffitti dipinti e statue, il tutto permeato da un profondo senso di sacralità.
Torniamo sui nostri passi per riprendere la strada per Leh e il Ladakh, il “paese degli alti valichi”. In un paesaggio che è ormai definitivamente arido ma non monotono, la piccola Toyota si fa strada tra colonne interminabili di camion Tata e di mezzi militari scavalcando i passi di Baralacha e di Lachlung a oltre 5.000 metri di quota (l’altitudine si fa sentire, ma il fatto di essere saliti gradualmente ci evita altri malesseri). Una deviazione ci porta al lago Tsokar, una distesa di sale bianco con un piccolo specchio d’acqua. Trascorriamo la notte in un campeggio allestito nelle vicinanze dove la luna piena illumina ma non riscalda la nostra tenda, comunque provvista di tutti i comfort (tappeto, letto con materasso e coperte, caraffa per l’acqua).
Il giorno dopo, la pista per il lago Tsomoriri attraversa ampie vallate deserte dove una rada vegetazione, le pietre taglienti e la terra si confondono nello stesso colore giallo ocra. Il bacino ci appare come un incredibile specchio blu circondato da terre disabitate e senza strade, con l’orizzonte chiuso su catene montuose dai nomi sconosciuti: sole, ghiacciai e deserti in uno spazio senza confini, capace di lasciare una nostalgia infinita.
L’ultimo tratto della strada per Leh percorre la valle dell’Indo, uno dei fiumi più importanti per la geografia e la tradizione del subcontinente indiano, le cui acque vengono ovunque intercettate e trasportate da ingegnose opere di idraulica popolare; i verdissimi campi irrigati si stagliano nitidi contro l’ocra del deserto circostante. Leh sorge in un’ampia vallata che confluisce in quella dell’Indo: la città storica è circondata per chilometri da caserme e altre installazioni militari, mentre il piccolo e animato centro, enclave del turismo occidentale con negozietti, ristorantini e altre amenità, è sovrastato dai ruderi del palazzo reale e da un monastero rosso e vibrante di bandierine. Main Bazar Road, la via principale, è un misto di commercio mediorientale e di dominazione inglese. Dall’alto appare il grande spazio vuoto del campo di polo, rude sport locale che i britannici copiarono trasformandolo in un gioco aristocratico ed elitario.
Attorno a Leh sorgono i monasteri più importanti, ormai parte del circuito turistico internazionale: Spituk, Basgo, Likir, Alchi, Lamayuru, Thikse, Hemis. Hanno in comune la posizione appartata e solitaria, la costruzione labirintica, il contrasto tra il buio fumoso degli interni e la luce aspra e solare dell’esterno. Il loro arredamento è più utilitaristico che estetico, visto che oggi i monaci si accontentano di oggetti di recupero, mentre i vecchi mobili dipinti fanno bella figura nei nostri negozi di antiquariato. Mirabili pezzi d’arte e di artigianato, scene affrescate spesso rovinate dall’incuria e dal tempo, stendardi dipinti con la raffigurazione dell’universo, manoscritti di preghiera convivono con suppellettili ordinarie come casse di zinco, tetrapak di olio per le lanterne (un tempo si usava il burro di yak), impianti elettrici approssimativi, mobili domestici, animali impagliati.
Da Leh, attraverso il Kardung La che è il passo carrozzabile più alto del mondo, a 5.600 metri, la Toyota scavalca faticosamente la catena del Ladakh Range raggiungendo la Nubra Valley, che grazie alla quota più modesta e alla mitezza del clima è una sorta di oasi agricola; al centro, il letto del fiume Shyok è una piatta distesa di sabbia grigia percorsa dai camion militari. Ed è qui che il nostro viaggio verso nord giunge al termine: le frontiere con il Pakistan e la Cina sono vicine e solo i residenti possono proseguire oltre i posti di blocco. Lasciamo Ranvir e la sua Toyota, i ragazzini dei monasteri che portano il chai e i monaci che sbadigliano durante le preghiere, la cucina indo-cinese con i suoi sapori e le uova sode dei lunch-box, la spiritualità dei luoghi sacri aggrappati alle montagne, la sublimità dei paesaggi di ghiaccio e deserto: ma una parte di noi resta in India, in cambio delle emozioni che riporteremo a casa.

Testo e foto di Gaetano Passigato

PleinAir 413 – Dicembre 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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