A tavola con il santo

A Salemi, nel cuore della Sicilia di nord-ovest, il giorno di San Giuseppe si festeggia con un eccezionale banchetto che simboleggia una speranza di prosperità vecchia quanto il mondo.

Indice dell'itinerario

Sotto il cielo dipinto dal primo chiarore del sole nascente l’aria è fresca, profuma di agrumi e di pane caldo, d’erba e di fiori appena sbocciati. E’ il 19 marzo, e a Salemi è già primavera. Nel cuore della campagna, tra le vigne e il grano, l’orologio biologico della terra riparte oggi: è la festa di San Giuseppe, il giorno in cui semina, raccolto, vendemmia e ogni altra speranza dei contadini cercano la benedizione divina con antichi riti propiziatori. E qui, secondo un costume profondamente radicato nella cultura siciliana, chi ha contratto un debito con il vecchio falegname costruisce in suo onore spettacolari templi di cibo, offrendo più di cento pietanze prima ai cosiddetti Tre Santi – rappresentazione della Sacra Famiglia – e poi a tutti coloro che visiteranno la sua casa. Si tratta di un codice devozionale immutato dalla notte dei tempi, che sopravvive anche nella vicina Erice (dove per secoli, ben prima dell’era cristiana, Sicani, Elimi, Fenici e Romani dedicarono a Venere i fasti di mense luculliane) e in numerose altre località dell’isola, come più volte documentarono i grandi etnografi dell’Otto e del Novecento.
Il pane, emblema della necessità, è ancora oggi un importante simbolo di sacrificio per il devoto che, mediante abili manipolazioni, lo trasforma in un’opera inconsueta, che sposa l’arte alla fede con risultati a volte sublimi. Per scoprirlo basta fare il giro delle abitazioni, oggi una decina in tutto, dove sono allestite le Cene di San Giuseppe: in occasione della festa si trasformano in veri e propri musei viventi del folklore, dov’è la gente in prima persona a farsi custode dei valori della tradizione.
Dopo almeno un mese di pazienti preparativi, nei due giorni che precedono la festa si cucinano le vivande per il grandioso banchetto rituale. Le donne lavorano quintali di farina: ciascuna intaglia la pasta col suo coltellino e la trasforma in merletti, animali, fiori, oggetti caratteristici. Le forme di pane più diffuse sono il martello, le tenaglie e i chiodi – chiaro riferimento all’attività di San Giuseppe – ma anche ‘u vastuni d’o Patriarca, il bastone del santo che culmina in un giglio, ‘a Madonna, il pane di Maria con una rosa che rappresenta la verginità, e ‘u Bamminieddu adornato con gelsomini, uccelli e simboli della Passione.
Da ultimo si prepara l’altare con assi di legno disposte in modo da costituire da due a cinque gradini; i pani più grandi vengono collocati sul prospetto della Cena, in alto a destra il sole, a sinistra la luna, al centro una stella o una cometa e infine in basso una grande aquila, ai suoi fianchi due pavoni e i monogrammi di Maria e Giuseppe. Animali, fiori, frutta e ortaggi sono rappresentati anche nei panuzzi frammisti ad arance e limoni che a centinaia ricoprono la costruzione. La scena frontale è tutta dei cucciddati, grosse pagnotte intagliate il cui peso varia dai 3 ai 7 chili, realizzate con farina, acqua, una pennellata di chiara d’uovo, insieme a sesamo e cacao per le decorazioni.
E arriva infine il momento di mettersi a tavola e di cantare la gloria del santo impetrandone la grazia con la sontuosità del banchetto. Il numero tradizionale delle portate è centouno, ma qualche famiglia arriva sino a centotrenta. Ad aprire l’interminabile lista gli spaghetti, insaporiti da un insolito intingolo: olio, zucchero, mollica di pane, cannella, prezzemolo e finocchio crudo. Il primo assaggio è riservato ai Tre Santi, che un tempo erano i più poveri del paese, poi la tavola viene aperta a tutti. In pochi minuti la festa diventa corale, e il rito condiviso con ciascuno dei visitatori si trasforma in convivio servendo frittate di ogni tipo (con i carciofi, le cipolle, i peperoni, i broccoli, il formaggio, il pomodoro fresco e il basilico, la ricotta), verdure (senape fritta, cicoria fritta con pecorino, polpette di broccoli e di finocchietto selvatico, finocchi e pomodori secchi fritti, melanzane impanate, funghi ripieni), pesce (sarde e boghe fritte, polpette di sarde, cozze e calamari ripieni, involtini di pescespada), arancini, torte e pasticcini con la crema e la ricotta, cannoli, cassate, biscotti con i fichi, pignolata. Il tutto fino a notte inoltrata quando sarà possibile anche ricevere in dono i pani che addobbano le Cene, ma non prima che siano stati benedetti dal parroco.

Paese di delizie
Dopo tanta ricchezza di sapori, Salemi sembra fatta apposta per smaltire le calorie di troppo: scalinate e ripide stradine caratterizzano infatti questa cittadina collinare, il cui profilo è sovrastato dai campanili delle tante chiese e soprattutto dall’erto castello. Risalente al 1060, è una fra le più preziose testimonianze normanne in Sicilia, e sul suo pennone il 14 maggio 1860 sventolò la prima bandiera italiana issata da Garibaldi dopo che ebbe assunto proprio qui la dittatura nel nome di Vittorio Emanuele. Il complesso si presenta con una torre cilindrica, due coppie di torri a pianta quadrata alte 20 metri (parzialmente visitabili) e in basso un grande portale a sesto acuto. Accanto alla rocca i ruderi della chiesa madre, andata distrutta dal terremoto del 1968: ma un’accurata opera di conservazione ha restituito entrambi gli edifici alla città.
Tra le pieghe della collina l’aspetto del centro storico è rimasto quello originario del borgo medioevale, pur caratterizzato da una singolare persistenza della struttura viaria di impronta islamica. Il tessuto urbano è il risultato di contrastanti influenze: quella araba ha lasciato i vaneddi d’Infernu, un intricato sistema di vicoli ciechi e cortili che si snoda alle spalle del collegio dei Gesuiti. Fondato nel 1628, ospita il museo d’arte sacra con tele, statue e sculture provenienti da chiese locali distrutte o non più aperte al culto; di notevole pregio sono alcune opere quali la Madonna con il Bambino di Francesco Laurana e una statua del 1400 raffigurante San Giuliano, attribuita a Domenico Gagini. Nei piani superiori si trovano la sala archeologica, con interessanti reperti rinvenuti nel territorio salemitano, e quella risorgimentale con cimeli, iconografie e documenti garibaldini. I bibliofili nn mancheranno infine un visita alla biblioteca comunale che conserva una delle raccolte più importanti della regione, con un patrimonio di 90.000 volumi e un fondo notarile che risale al 1427: fatevi mostrare il Libro Rosso, un preziosissimo manoscritto del 1314 contenente i privilegi concessi dai vari regnanti alla città fino al 1638, quasi a voler sancire il primato di quello che furono gli Arabi a chiamare Saleiman, luogo di delizie.

PleinAir 392 – marzo 2005

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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