A tavola con San Giuseppe

Un'antica e singolare tradizione ci richiama in un piccolo centro della provincia tarantina

Indice dell'itinerario

Per onorare San Giuseppe, simbolo cristiano dell’unità familiare, è uso accendere il 19 marzo piccoli e grandi falò che illuminano le notti di molte città e paesi d’Italia.
In questo stesso giorno, in alcuni centri dell’Italia meridionale, la tradizione prescrive invece l’allestimento delle cosiddette mattre, tavole imbandite di pietanze da distribuire a tutta la comunità. Sono le Tavole di San Giuseppe, apprezzate soprattutto in provincia di Taranto, nei centri albanesi di Monteparano e San Marzano, oltre che a Lizzano e a Monteiasi. Sostanzialmente simile la tradizione; si differenzia per la consistenza numerica delle tavole (dieci a Lizzano), per il contorno di processioni, luminarie e bande musicali (San Marzano e Lizzano) e di altre manifestazioni collaterali (falò a San Marzano).
Noi vi raccontiamo le tavole di Monteparano, il più piccolo tra questi comuni, posto su un’altura dalla quale si domina il porto e la città di Taranto.
Qui le famiglie che ancora una volta hanno deciso di allestire le tavole, già durante tutto l’anno hanno accantonato le provviste di cibo con la collaborazione di parenti, amici e vicini. Ognuno fornisce quello che può, anche i soli attrezzi da cucina, pentole o tavolieri di legno per la preparazione della massa, un impasto di farina bianca, semola e acqua dal quale si ricava una pasta simile alle tagliatelle.
Un’attività febbrile investe le cucine nei giorni antecedenti il 19 marzo: i fuochi continuamente accesi, i fumi, gli odori e l’andirivieni delle donne che si affannano affinché sia tutto approntato per l’evento, creano un’atmosfera altrove perduta.
Tutte queste operazioni si svolgono secondo una ritualità in cui saggezza contadina e religiosità s’intrecciano: l’olio che servirà a condire la massa, dopo cinque giorni di ininterrotta bollitura cresce addirittura di volume; le capaci caldaie, appena tolte dal fuoco, presentano il fondo insolitamente freddo tanto da potersi toccare tranquillamente con le mani; le pietanze, per volontà del santo, si sbriciolano se assaggiate prima della festa. Ai preparativi si associa l’allestimento, nella propria abitazione, di un altarino dedicato al santo. Si svuota un’intera stanza per lasciare posto a una struttura piramidale rivestita da bianco tulle e raso che incorniciano l’icona di San Giuseppe al quale sono offerti fiori, lumi votivi e pani. La scenografia è completata da lunghi scaffali sui quali le pietanze attendono il momento di essere distribuite.
Nel giorno di festa, già dal primo mattino la casa è aperta a tutti affinché si possa rendere omaggio al santo visitando l’altarino e l’esposizione dei cibi. Più silenziosi gli ospiti, più ciarlieri i concittadini che analizzano con cura la stanza elogiando, alla fine, i proprietari per la pazienza e lo spirito di sacrificio che hanno reso possibile il rinnovarsi del rito.
A mezzogiorno, col tacito consenso degli automobilisti, si occupa un tratto di strada antistante l’abitazione; si allestisce un tavolo intorno alla quale siedono i commensali, i santi e San Giuseppe il quale, nel rispetto di antiche regole, segnala il cambio di ognuna delle tredici portate con tre tocchi di forchetta sul piatto.
A cerimonia terminata, l’insalata, le arance, le fave, le zuppe di ceci e quella di fagioli, i cavolfiori lessi, il baccalà fritto e al sugo, i lampasciuni ovvero i muscari, il riso con le cozze e infine la massa sono offerti in piccole porzioni ai presenti. E’ l’antico gesto di distribuire il cibo ai poveri da parte di famiglie che, pur non essendo ricche, si accollavano le spese per dare ai più bisognosi.
Mentre queste cerimonie spontanee si svolgono presso le abitazioni private, una rappresentazione pubblica si tiene nella piazza principale dove le tredici portate sono servite a figuranti in costume contornati da grandi cesti ripieni di forme di pane, da ragazze in costume albanese e dal pubblico. Quest’iniziativa assume particolare importanza in quanto si spera che il coinvolgimento della popolazione possa far sì che la tradizione sopravviva.
Dalle quaranta famiglie presenti nel secolo scorso, infatti, si è passati alle tre, quattro che oggi compiono ancora quest’atto di devozione.

PleinAir 356 – marzo 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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