A spasso con Singh

Una vecchia automobile, un autista del posto, un mese di viaggio attraverso il nord dell'India fra mucche sacre, pellegrini, santoni e la poliedrica umanità del subcontinente asiatico: un'esperienza di sconvolgente intensità anche per il più smaliziato dei viaggiatori.

Indice dell'itinerario

L’India è vicina: bastano sette ore di volo per raggiungere Delhi. Ma una volta a destinazione tutto è enorme, lontano, difficile in una nazione di oltre 3 milioni di chilometri quadrati di superficie affollata da oltre un miliardo di abitanti, per tacere delle mucche. L’India è sconvolgente: per la sua vastità, la sua complessità, le sue contraddizioni fa desiderare di saltare sul primo volo e scappare via, ma subito dopo di tornare ad immergersi in questo caos tanto assurdo quanto affascinante. L’India è un sogno: una sorta di magia nata con le letture giovanili di Kim e delle avventure di Sandokan, nutrita da quelle adolescenziali del Siddharta, maturata con le suggestive riflessioni di un Tiziano Terzani. Un’immagine filtrata attraverso troppi occhi e troppe anime, sempre occidentali, per essere vera.
E’ quindi con un misto di delusione e stupore che si sbarca in una Delhi dove il caos supera ogni immaginazione, una città dove gli estremi sono la norma e la norma è la povertà: palazzi avveniristici e fetide baracche, alberghi sontuosi e marciapiedi che sono contemporaneamente casa, ufficio, camera da letto e camera ardente per una maggioranza di diseredati. Delhi colpisce duro con odori, suoni, immagini che mettono alla prova il più smaliziato dei viaggiatori; con un traffico micidiale di automobili, autobus e camion immersi in un magma di biciclette e ciclorisciò, tutti eternamente strombazzanti per farsi largo nella folla.
Eppure, in mezzo a questa babele, emergono inattesi rifugi in cui riposare i sensi sopraffatti da tanti stimoli: il sereno Raj Ghat, il parco con il sobrio piedistallo in marmo nero dove fu cremato il Mahatma Gandhi; l’Indira Gandhi Memorial, la dimora in cui la statista visse e fu uccisa nel 1984; il Bahai Temple, un edificio moderno a forma di fiore di loto dedicato a chi voglia meditare in silenzio, qualunque sia il suo credo; e soprattutto lo splendido Qutb Minar, un complesso islamico di architettura afghana dove è piacevole passeggiare fra le antiche mura, al riparo dall’India più invadente. Piccole oasi dove riprendere fiato prima di immergersi nell’appiccicosa, petulante, chiassosa umanità di Chandni Chowk, la via principale di Old Delhi, densa di gente, di bancarelle, di negozi e di semplici stracci gettati in terra su cui avviare un qualche commercio o attività: sarto con tanto di macchina per cucire, dentista e venditore di dentiere usate, acquaiolo o scrivano. E non può mancare una pazza corsa con il tuk-tuk, onomatopea locale per motorisciò: una sorta di Ape con cui sfidare la sorte a folle velocità travolgendo pedoni e biciclette, incuneandosi fra gli autobus, suonando il clacson senza rispetto per i propri e altrui timpani. Timpani che non vengono risparmiati neanche all’alba, quando dalle moschee di Old Delhi un muezzin registrato intona la sua litania dando il via alla macellazione halal di pecore e capre, in un profluvio di sangue, mentre la gente si lava sotto improvvisate fontanelle.

La terra dei maharaja
Singh, il nostro autista, ha il viso aperto e franco e guida una vecchia-nuova Ambassador con la quale promette di farci conoscere l’India più vera, cominciando con una corsa spericolata nel traffico magmatico di una Delhi al risveglio. E noi, comodamente seduti sull’ampio divano posteriore della grande berlina, vediamo scorrere il paese dai finestrini.
Da umida e rigogliosa pianura, il paesaggio si tramuta in arida pietraia con tipici alberi dalle piccole foglie, e ancora nelle sabbie del deserto del Thar, interminabile distesa rovente con dune, dromedari e greggi sparute a brucare il nulla. Anche la gente cambia, si fa più araba mentre ci addentriamo nel Rajasthan, la regione dei maharaja, eredi degli antichi sovrani Rajput. Una terra solare dove il rosso, il giallo, l’arancione dei turbanti si fondono con i colori dei vaporosi sari e dove il profumo delle spezie pervade mercati e palazzi, che celano sale fresche e sontuose dietro facciate che paiono ricami.
Percorriamo oltre 500 chilometri fino a Bikaner su oneste provinciali, piste sterrate e interminabili tratti di stretto asfalto bitorzoluto circondato da pietraie, dove chi è più prepotente e più grosso ha la precedenza costringendo l’altro a scansarsi di gran fretta. Dopo dieci ore di viaggio, la polverosa città si mostra avviluppata intorno al fiabesco e labirintico Junagarh, che fu ricchissimo caposaldo sulla Via della Seta fino alla scomparsa dell’impero britannico e alla chiusura della frontiera con il Pakistan.
Il deserto si fa sempre più arido fino a Jaisalmer, perla delle sabbie, la città-fortezza dei maharaja, con il grande castello in pietra dorata che domina una sconfinata pianura dello stesso colore. Dietro i bastioni un dedalo di vicoli, di templi, di palazzi che sembrano costruiti con la sabbia in un delicato merletto destinato a sbriciolarsi per l’incuria, ma che ci avvolge con il suo fascino da mille e una notte.

Alacre disordine
Proseguendo verso sud il deserto è sempre deserto, ma un po’ meno, e l’India è sempre povera, ma un po’ meno. Con Singh alla guida arriviamo dove non arrivano le carovane dei turisti chiuse nei binari dei viaggi organizzati. Visitiamo quello che bisogna vedere e quello che non si dovrebbe: paesaggi incantevoli e costruzioni fantastiche in mezzo a mucchi di spazzatura e a una calca dantesca di persone urlanti, questuanti, morenti.
Al centro di Jodhpur, chiamata la città blu per il colore dei suoi edifici che dovrebbe tenere lontani gli insetti, sorge il favoloso Meherangarh, il palazzo del maharaja, protetto da una successione di ben sette porte a prova di carica di elefante. La parte vecchia, come sempre un intreccio di vicoli e viuzze, è animata dal classico disordine indiano, ma un disordine alacre: botteghe, artigiani, pensioni a buon mercato.Il paesaggio cambia e il clima anche, il deserto sfuma in un’India rigogliosa e pluviale dove il monsone si fa sentire. Si sale di quota in un boscoso ambiente montano verso gli stupefacenti templi in marmo bianco di Ranakpur, immersi nella foresta pullulante di scimmie. E poi giù verso Udaipur, la città bianca sul lago Pichola, con i suoi splendidi palazzi di un fascino decadente: un luogo misterioso e irreale dove, nell’albergo costruito in mezzo al lago, era ambientata perfino una delle avventure di James Bond.
La visita del Rajasthan non può tralasciare la capitale Jaipur, vasto e piacevole agglomerato con edifici dalle tonalità rosate e con tutte le contraddizioni tipiche delle grandi città indiane. Lo sterminato mercato sotto i portici è un’esperienza affascinante e allo stesso tempo defatigante per i sensi, il fisico e la mente: odori di cibo, incenso, escrementi, legni pregiati e pipì, venditori che ti strattonano e cercano di convincerti ad acquistare pentole, stoffe, armadi, macchine per cucire e casseforti, il continuo suono dei clacson, il mantra Hare Krishna sparato a tutto volume dagli altoparlanti agli angoli delle strade. Storditi da tante sensazioni, a dorso di elefante raggiungiamo Amber, a ridosso dei monti Aravalli, alla cui fortezza si accede comodamente seduti sui tranquilli pachidermi bardati a festa, come vuole la tradizione.

Antichi templi
Oltre ai fachiri, agli elefanti e al brulichio della folla, ci sono altre rappresentazioni dell’India che entrano nell’immaginario collettivo: mistici templi persi nelle foreste, città abbandonate, poderose fortificazioni a vegliare sui deserti. Tant’è, anche Arthur Conan Doyle ambientò una delle storie di Sherlock Holmes nella fortezza perduta di Agra. Percorrendo la strada che da Jaipur conduce a quest’antica capitale si incontra Fatehpur Sikri, torrida, magica e perfettamente conservata. Fatta costruire nel 1569 dall’imperatore moghul Akbar, con i grandi padiglioni e i palazzi in arenaria rossa doveva essere la dimostrazione dello sfarzo e della potenza della sua corte: ma il luogo scelto era povero d’acqua e, nonostante le enormi cisterne e un ingegnoso sistema di raccolta e trasporto della pioggia, la città non si sviluppò e venne abbandonata appena vent’anni più tardi.
La corte si trasferì proprio nella vicina Agra, dove il Taj Mahal è certamente il luogo più visitato dell’India. Posto sulle rive del fiume Yamuna, fu fatto costruire dal quinto imperatore mughal Shah Jahan nel 1631 per ospitare le spoglie della sua amatissima seconda moglie Mumtaz Mahal, morta dando alla luce il quattordicesimo figlio. Il Taj Mahal, nel suo splendore, riesce ad essere contemporaneamente un monumento all’amore e un monumento funerario, con il fascino delle sue perfette proporzioni che si specchiano in lunghe fontane, cambiando colore durante il trascorrere del giorno, della notte e delle stagioni grazie alle pietre semipreziose incastonate nel marmo bianco.Singh ci guida ora a Gwalior, inespugnabile fortilizio che si allunga per quasi 3 chilometri su una cresta di arenaria, prima di condurci a Orchha, un nome che significa nascosta. Su un’ansa del fiume Betwa sorge questo antico complesso di templi, palazzi, guglie, mura possenti dalle forme articolate, con alti coni che svettano verso il cielo da una foresta fittamente abitata da pappagalli, scimmie e avvoltoi. Torcia alla mano e qualche rupia al giovane custode per inerpicarsi sulla cima del Chaturbhuj Temple attraverso ripide e sconnesse scalette, stretti passaggi, corridoi e ponticelli fin sulla terrazza sommitale, dalla quale lo sguardo si stende su tutto il vasto e magico territorio di Orchha. E infine Khajuraho, singolare sintesi di architettura e scultura con la sua valle dalla quale si elevano ventidue stupefacenti templi risalenti al X secolo a.C., adornati con figure di uomini e di donne avvinghiati nell’amplesso amoroso.

Verso il fiume sacro
Sull’eredità britannica in India si può anche discutere, ma se il paese ha una delle reti ferroviarie più sviluppate del mondo (60.000 chilometri di binari e oltre un milione e mezzo di dipendenti per trasportare ogni giorno più di 10 milioni di passeggeri) questo si deve senza dubbio agli inglesi. Non può mancare allora un giro in treno in un paese che ne ha fatto il principale mezzo di trasporto di massa. Già le stazioni sono di per sé uno spettacolo, sorta di antri dove è ammassata un’umanità variopinta, sporca, vestita di cenci, stesa per terra, in eterno movimento, carica di bambini e fagotti. La tendenza alla suddivisione in caste si esprime anche nelle classi ferroviarie, con ben otto livelli: dalla General, una specie di carro bestiame con panche di legno utilizzato quasi solo da indiani, alla AC1, corrispondente – ma tutto è relativo – a un nostro Eurostar. Anche in prima classe il viaggio non è dei più comodi, e tuttavia la lentezza dello spostamento consente di vivere il treno come un pellegrinaggio a piedi, contemplando dal finestrino pianure coltivate e aridi deserti, laghi scintillanti e pietraie infocate, città di marmo e villaggi di fango.
E’ l’alba di un’afosa giornata quando entriamo nelle viscere di Varanasi, l’antica Benares, la città sacra sul Gange: una sorta di discarica a cielo aperto brulicante di animali, imbonitori, storpi, cadaveri condotti alle pire, un vero e proprio girone infernale, forse l’anima vera dell’India. Invasa da pellegrini, santoni, asceti e guru, è la meta del pellegrinaggio più importante del paese, con milioni di credenti che si riversano ogni anno sui ghat, le ampie gradinate che scendono al fiume, per immergersi in un bagno purificatore nelle sue torbide, maleodoranti ma sacre acque. E’ questo il luogo in cui ogni induista desidera morire per concludere la ruota delle reincarnazioni e accedere direttamente al moksha, la liberazione dal ciclo di nascite e morti. Facendosi largo tra la folla che si accalca in un groviglio disorientante di vicoli, si riesce a raggiungere la sponda: chi si lava, chi prega, chi chiede l’elemosina, chi vende, chi compra, chi vive, chi muore. Il Gange è il cuore pulsante di questa città, ma l’acqua contiene oltre un milione e mezzo di colibatteri fecali per millilitro quando il limite massimo dovrebbe essere di 100, e per ottenere una purificazione profonda è necessario berla. E poi c’è il Manikarnika Ghat, dove le spoglie di coloro che sono venuti qui a morire ardono sulle pire disposte lungo la riva, fra immense cataste di legna pronte alla bisogna: circondato dal fumo acre, in una pioggia di cenere, fra il crepitio delle fiamme e l’odore dolciastro della carne bruciata, anche il viaggiatore più cinico rimane sconvolto.

I pascoli del cielo
Procediamo a passo di lumaca – e non in senso figurato – avviluppati dalla lussureggiante foresta pluviale, mentre il cielo basso si tramuta spesso in nebbia e scarica brevi acquazzoni. In oltre quattro ore abbiamo percorso una quarantina di chilometri e ne restano altrettanti: siamo a bordo del Toy Train, il mitico treno a scartamento ridotto (appena 61 centimetri separano le due rotaie) che da oltre centoventi anni sale ai 2.100 metri di quota dei contrafforti himalayani di Darjeeling, il territorio che dà il nome al famoso tè indiano. Il viaggio inizia ai 100 metri di altitudine di New Jalpaiguri, da dove gli stretti binari si avviano attraverso le calde e umide piantagioni. Improvvisamente il trenino si immerge nella foresta e inizia a salire, a girare, a intersecare a più riprese la vicina strada, sulla quale ha sempre la precedenza; sequenze di zeta reverse, il sistema di binari a zigzag, permettono di superare le maggiori pendenze. Intanto la vegetazione si fa sempre più fitta e umida, con foglie enormi e fiori multicolori tra i quali i vagoni si fanno strada a forza, e la vista si apre su cascate e valli profonde, dove i binari passano abbarbicati all’orlo del precipizio: quale modo migliore per accedere all’Himalaya?
Darjeeling è un luogo che riconcilia con l’India, ma forse questa non è India e anche la gente è diversa: tibetani e nepalesi, dagli occhi spiccatamente a mandorla. L’assenza di questuanti e imbonitori, la temperatura mite, il paesaggio montano e boscoso, tutto contribuisce a rasserenare l’animo. E nel pomeriggio, dopo la visita a una delle numerose piantagioni di tè arrampicate sulle montagne, non può mancarne una tazza con i pasticcini in una delle tante sale della città.
Ed è l’ora di riprendere la strada di casa, con un volo interno che ci riporterà a Delhi e da qui in Italia. Ma esistono molte strade per entrare in India e neanche una per uscirne.

PleinAir 439 – Febbraio 2009

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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