A scuola dallo sciamano

Il viaggio pleinair si fa vita quotidiana, l'avventura prende i colori della magia, la cronaca scorre al ritmo della storia: un'eccezionale esperienza in Mongolia, al seguito dei pastori e sulle orme di Gengis Khan

Indice dell'itinerario

L’altopiano si apre a perdita d’occhio di fronte al nostro sguardo attonito. Un lungo serpente di filo spinato divide in due l’immensa prateria, segnando la linea di confine tra Russia e Mongolia, mentre una stele in pietra piantata in mezzo al nulla, con il simbolo della disciolta Unione Sovietica, evidenzia tutta l’artificialità di una divisione politica di cui la natura non ha cognizione. Le mandrie di yak e di pecore brucano solitarie nella terra di nessuno, mentre all’orizzonte il fumo bianco della legna umida si alza dritto nel cielo senza vento in questa sera d’inizio estate.
Sono al mio secondo viaggio in Mongolia, e solo la fortuna ha voluto che sia riuscito a entrare nel paese dall’estremo ovest: le trattative alla frontiera russa sono durate quasi cinque giorni, ma alla fine hanno avuto successo. Alte catene di montagne sono la barriera – questa sì naturale – che divide questo immenso e mitico lembo di Asia Centrale, grande dieci volte l’Italia, dalla Russia e dal Kazakhistan.
Sperduti accampamenti di pastori nomadi appaiono di tanto in tanto nelle pianure che si susseguono a intervalli, dietro piccole catene di colline: sono solo poche ger, tende coperte di feltro e circondate dai recinti per gli animali, con i bambini che corrono sorridenti mentre gli adulti preparano formaggi, rappezzano panni, accatastano legna, rinforzano le recinzioni contro gli attacchi notturni dei lupi. Per giorni ci spostiamo verso est seguendo i tracciati dei carri lungo rotte antichissime che segnano il continuo migrare dei mongoli, e incontriamo una piccola carovana che avanza lentamente nella nostra stessa direzione, preceduta dal gregge di capre e di yak alla ricerca di pascoli che possano assicurare erba per due o tre settimane. Sulla riva di un ruscello circondato da prati verdissimi, letteralmente tappezzati di fiori, viene impiantato il nuovo accampamento: in poco più di un’ora ogni tenda è montata, al suo interno tutto riprende la posizione di sempre e la vita ricomincia come se fosse la terra ad essere scivolata misteriosamente sotto il bivacco. Un’aquila volteggia alta nel cielo di un azzurro incredibile, alla ricerca di qualche agnello separato dal gregge; i ragazzi a cavallo guidano attenti le mandrie mentre all’accampamento fervono i lavori di preparazione del feltro, lo spesso panno di lana che rende calde e confortevoli le ger durante le notti invernali, quando le bufere di vento portano le temperature anche 50 gradi sotto lo zero.

Parlando con gli spiriti
Lo scopo di questo mio viaggio non è la vacanza, ma il lavoro: devo realizzare un documentario incentrato su abitudini e costumi dei mongoli e l’incontro con la carovana mi offre un’occasione che da tempo sto cercando, cioè assistere a una seduta sciamanica.
Buraan, il capo, in una sera di luna nuova raduna tutti nella sua ger, indossa l’abito rituale con il copricapo decorato di penne d’aquila e inizia il suo viaggio magico nel mondo degli spiriti, al suono martellante del tamburo. Un ritmo incalzante accompagna la voce che si leva in un canto profondo e suggestivo per invocare lo spirito guida, mentre simbolicamente il corpo si addentra nello spazio cosmico. Le lanterne che bruciano burro fuso emanano una luce calda e tremolante, le figure sacre appese sopra il piccolo altare si confondono con le foto sbiadite di parenti lontani e attimi di vita passata. L’atmosfera è carica di aspettative; tutti, raccolti nel silenzio religioso del momento, attendono trepidanti il responso degli dèi, mentre Buraan ringrazia gli spiriti della montagna e auspica una stagione fiorente per la sua piccola comunità. E mentre giro il filmato, io che rappresento una cultura tanto diversa e lontana, capisco che il delicato equilibrio tra mondo naturale e mondo spirituale dipende solo dall’abile mediazione degli sciamani che mantengono vive le tradizioni e salde le regole del gruppo.
Nella luce tenue dell’alba, una nuova giornata inizia e il sorriso dei bambini che mungono gli yak è il saluto che ci accompagna verso una nuova tappa.

I giorni del Naadam
Proseguendo ancora verso est attraversiamo una serie di altipiani tagliati dal corso impetuoso di torrenti e fiumi che scendono dalle montagne. Di tanto in tanto, sulla cima delle alture, si vedono sventolare le bandiere degli ovoo, monumenti sacri che simboleggiano il legame fra la terra e il cielo: pile di pietre accatastate, corna di animali e oggetti di ogni genere, lasciati da coloro che passano di qui, sostengono i bastoni ai quali sono fissate strisce di seta azzurra che sventolano in segno di ringraziamento agli spiriti. Dall’alto il panorama si apre su dimensioni sconfinate, dove gli accampamenti estivi appaiono come macchie bianche sulla verde distesa delle praterie. Per centinaia di chilometri non si incontra alcun centro abitato, solo pascoli, boschi e montagne attraversate da vecchie piste sovietiche, e spesso piccole carovane di due o tre persone che in sella si dirigono verso le città più vicine, ma sempre distanti giorni e giorni di viaggio.
In questo periodo – siamo nella prima metà di luglio – si celebra il Naadam, il festival che ricorda l’anniversario della rivoluzione mongola del 1921: un momento fondamentale di aggregazione all’insegna di valori antichi e radicati. Da tutte le comunità i cavalieri e i lottatori più abili si muovono a cavallo, su carri trainati dagli yak o a bordo di enormi camion per incontrarsi e sfidarsi nei tre giorni della manifestazione, che si tiene contemporaneamente in diverse località del paese.
Arrivando a Tsetserleg il giorno prima dell’inizio delle gare, il vasto altopiano circondato dalle colline verdeggianti appare costellato di tende, cavalli e cavalieri che si sono accampati ovunque; gli abiti rituali che verranno indossati nelle gare di lotta sono stesi al sole, con i decori dorati che brillano nella luce intensa del mattino. E’ uno stupefacente salto all’indietro nel tempo: il suono gutturale dei canti mongoli si diffonde nella valle, richiamando l’attenzione sull’inizio delle gare, e gli ultimi carri con le ruote di legno arrivano cigolando da ogni sentiero, carichi di uomini, donne e bambini avvolti nei del, i costumi di velluto rosso con ricami turchesi.
Sono gli anziani che regolano e arbitrano gli incontri di lotta; eleganza e forza fisica si equivalgono, e i vincitori sfilano fieri danzando e simulando con le braccia il volo potente dell’aquila, animale sacro della mitologia mongola. Gli ultimi a sfidarsi sono i giovanissimi che, spesso senza sella e a piedi nudi, con una lunga ed estenuante galoppata in groppa ai cavalli migliori spingono all’estremo gli animali fino agli ultimi metri.
Sotto le tende aperte e ornate per la festa, grandi pile di formaggio arool e burro di yak sono disposte sopra i tavoli apparecchiati per festeggiare vincitori e vinti. I bimbi dai volti arrossati scorrazzano ovunque, mentre gli anziani seduti in cerchio commentano le gare bevendo rakshi, un robusto distillato di cereali.

Capitali dell’impero
Scoprire gli spazi immensi della Mongolia significa perdersi per intere giornate a vagare lungo piste interminabili che serpeggiano a perdita d’occhio tra l’erba. Seguendo una rotta che in tanta vastità pare quasi immaginaria, la nostra squadra continua a muoversi verso oriente in direzione della capitale Ulaan Baatar, dove dobbiamo ricondurre l’interprete che da settimane ci aiuta a comunicare durante le riprese del documentario. Quasi all’improvviso, in una giornata di cielo grigio, nella prateria vediamo spuntare all’orizzonte strane costruzioni che paiono un miraggio: una bianca cinta di mura avvolge Karakorin, l’antica capitale del regno di Gengis Khan. Templi e stupa sono immersi nel silenzio, i tetti a pagoda finemente decorati proteggono statue del Buddha nelle sue molteplici posizioni, con le luci tremule delle lampade votive che rischiarano appena le pareti coperte di tankha, i dipinti sacri su seta.
Attraverso una pesante porta ci ritroviamo fuori da Karakorin, immersi nella natura selvaggia, in una pianura sovrastata da un cielo incombente punteggiato di nuvole: e la mente corre al tempo in cui l’ordine e il controllo del territorio erano affidati al rude esercito del mitico imperatore. Anche oggi l’unico segno della nostra epoca è una sequenza infinita di pali del telegrafo che corre per centinaia di chilometri portando la sua voce metallica fino alla capitale Ulaan Baatar. La vita, come in tutte le metropoli, è regolata dai ritmi frenetici della modernità; grandi edifici di epoca sovietica contrastano con le tende piantate ovunque in città, mentre sulla grande piazza che ricorda Tien-An-Men sono posteggiati fianco a fianco, in un spettacolo davvero inconsueto, cavalli con le selle di legno e fuoristrada giapponesi dalle cromature scintillanti, mentre cavalieri in abiti tradizionali concludono i propri scambi con uomini d’affari in giacca e cravatta. Nel grande mercato riesco, dopo oltre un mese, a rifornirmi di verdure fresche assolutamente introvabili in tutto il resto del paese, dove l’agricoltura è praticamente sconosciuta.

Il deserto freddo
Carichi di oltre 1.000 litri di carburante e di scorte di cibo ripartiamo verso il sud, quasi al confine con la Cina, per poi dirigerci a ovest verso il Kazakhistan. La fascia meridionale della Mongolia è occupata in prevalenza dal deserto del Gobi, che in territorio cinese diventa il grande Takamaklan: il paesaggio cambia radicalmente, praterie e colline ancora verdi a fine estate lasciano il posto a dune di sabbia modellate dal vento, piatte montagne erose in forme bizzarre, pianori coperti da un fitto strato di pietrisco vecchio di milioni di anni.
Le carovane che incrocio si spostano con i cammelli battriani dalle flosce gobbe oscillanti dopo le lunghe tappe da un pozzo all’altro. I nomadi del sud sono in perenne migrazione alla continua ricerca di pascoli e di acqua per il sostentamento di greggi e mandrie, e tutto in queste comunità è ridotto al minimo per facilitare gli spostamenti: una tenda, pochi pali di legno per i recinti, il necessario per la vita quotidiana stivato in grosse ceste che ondeggiano sui fianchi degli animali.
Seguendo le piste percorse dai camion dei commercianti cinesi di lana di capra, che vengono a rifornirsi qui del pregiato kashmir, raggiungiamo il limite meridionale della Mongolia. Poche centinaia di chilometri ci separano dalla Cina, e all’orizzonte spesso si intravvedono branchi di kulaan, gli asini selvatici che popolano questa regione: per sfuggire ai predatori riescono a raggiungere i 70 chilometri orari, e mi trovo a rincorrerli nel vano tentativo di filmarli, con il camion che sobbalza impazzito sulle ondulazioni del terreno.
Il tempo corre veloce e l’estate cede il posto all’autunno, le giornate si accorciano e le temperature cominciano a scendere. E’ giunto per noi il tempo di rientrare e, attraversando i monti Altai, scorgiamo le prime nevi sulla cima delle montagne più alte. Il vento freddo ha spazzato via le nuvole rotonde del caldo estivo e il blu cobalto del cielo è accecante: qui, tra poche settimane, tutto sarà bloccato dalla morsa del gelo, rimanendo fissato come in una gigantesca fotografia fino alla prossima primavera.

PleinAir 413 – dicembre 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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