A cavallo con gli Etruschi

In viaggio tra boschi e campi scanditi da necropoli vecchie di duemila anni e borghi dominati da nobili residenze: una settimana in sella dal Monte Amiata all'alto Lazio.

Indice dell'itinerario

Senti di compiere gesti arcaici portando il cavallo per le vie costruite nel tufo più di venticinque secoli fa: i gradini e le pietre sono consumati dai passaggi ripetuti nel tempo, bisogna scendere di sella e ritornare passo passo nei medesimi punti percorsi dai primi abitanti della zona. La luce filtra a fasci attraverso le strette pareti delle rocce e i rami degli alberi, la discesa buia e scivolosa sembra condurci in un mondo dove ancora si avvertono antiche presenze.
E’ questo il fascino di un viaggio a cavallo nelle terre dell’Etruria meridionale, in quella civiltà del tufo che rappresenta uno degli aspetti più duraturi dell’eredità etrusca. Ovunque sono tombe, spesso riusate come pollai, come stalle, come rimesse agricole, come garage e anche come abitazioni. Le opere di quei tempi ormai remoti sono cose di famiglia, lasciate dagli antenati per essere impiegate nella vita quotidiana: così le antiche strade sono ancora utilizzate da cacciatori e contadini, e i boschi e la campagna – ma in generale tutto il territorio – non hanno perso il legame con il passato.
Un temporale meridiano, breve ma violento, segna l’inizio del nostro itinerario che dalle pendici del Monte Amiata ci ha portato sulle rive del fiume Fiora. In pochi minuti cavalli e cavalieri, con tutto il carico, sono completamente inzuppati, e l’acqua impasta l’odore del cuoio di selle e bisacce con quello dell’animale. Ma scioglie anche le preoccupazioni che ognuno si porta dietro all’inizio di un viaggio del genere: di conservare bene le proprie cose, di tenerle in maniera ordinata e a portata di mano per un’intera settimana. Tutto è ormai fradicio e mescolato dalla fretta di mettersi al riparo, le coperte che servono per gli animali vengono usate per asciugare le persone, gli impermeabili dei cavalieri per riparare i cavalli.
Più tardi, quando smette di piovere, nei campi si sentono i profumi di finocchio selvatico, di menta e di ginestra in fiore che segnano il ricordo più forte di questo giugno in Toscana: è tempo di iniziare la risalita per l’altipiano tufaceo e poi per la via cava che porta alla necropoli Prisca. Qui storia e geologia si fondono insieme, grazie alla capacità degli Etruschi di sfruttare armoniosamente i caratteri dell’ambiente. La tomba Ildebranda, la più bella, la più grande, è così perfettamente integrata con il bosco e le rocce che sembra quasi più opera della natura che dell’uomo.
Usciti dal bosco ci troviamo di fronte l’ingresso alla rocca medioevale di Sovana: una tappa molto attesa, a cui dobbiamo però rinunciare perché la pioggia ci ha fatto fare ritardo sulla tabella di marcia. Doris, la nostra guida, ci conduce fino al campo lungo la vecchia strada scavata nel tufo che porta a Pitigliano. Dal pianoro in cui sono montate le tende, vediamo a sinistra il duomo di Sovana e a destra la torre di Pitigliano: quest’ultima sarà il riferimento per l’itinerario del giorno seguente, attraverso boschi e necropoli, passando per le vie cave di San Giuseppe e dei Fratenuti in un reticolo di antichi tracciati che vennero usati con regolarità almeno fino al Medioevo (quindi per circa duemila anni), ma tuttora facilmente percorribili. L’altro riferimento è il Fiora, che incrociamo più volte: un fiume che ha dovuto fare i conti con le asprezze del territorio, scavandosi il corso tra le pietre così come hanno fatto anche gli uomini.
Il tragitto si svolge in parte a piedi, per guadi e ripide discese, in una vegetazione molto fitta che permette ai cavalli di andare solo al passo e ci fa arrivare alla sera molto stanchi, sporchi e pieni di graffi. Il campo è sulla sponda del Fiora e un bagno, fra grandi macigni e ripide cascatelle che si aprono all’improvviso in pozze di acque tranquille, è veramente quello che ci vuole per cancellare la fatica del giorno. Il fuoco delle bistecche e un po’ di grappa tengono viva la serata, finché tutti vanno a dormire. I cavalli sono nel recinto a poca distanza e dalle tende ne sentiamo il trapestio, accompagnato dal canto dell’usignolo notturno.
Un ultimo attraversamento del Fiora segna il nostro passaggio nel Lazio: nuove luci più calde e più forti, un terreno morbido e riarso adatto a frequenti galoppate per i sentieri sterrati che si aprono nella campagna. Ormai il gruppo si è affiatato, cavalli e cavalieri hanno imparato a conoscersi, si creano gerarchie e ruoli dovuti al carattere e all’abilità di ciascuno: a briglia sciolta è come se tutti questi elementi potessero finalmente trovare libero sfogo, per poi placarsi di nuovo.
L’ingresso nella Selva del Lamone ha qualcosa di dantesco: è questa veramente una selva selvaggia, oscura e impenetrabile, dove al sottobosco si sostituiscono sterminate pietraie; la attraversano lunghissimi sentieri assolutamente diritti che favoriscono il nostro galoppo, spinti anche da un arcano timore di incontrare uno dei tanti briganti che la frequentarono e di cui è ancora viva la memoria. All’uscita si intravvede già in lontananza il lago di Mezzano, in un panorama di grano maturo e papaveri rossi (ormai una vera rarità, a causa dei diserbanti), che ci accoglie al tramonto per il nostro ultimo campo.

PleinAir 398 – settembre 2005

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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