Dott.sa Debora Rasio

Medico, specialista in oncologia medica, ricercatrice presso la Sapienza Università di Roma, nutrizionista Rai, Mediaset e La7, autrice dei bestsellers “Death by Medicine” -Axios Press; “La dieta non dieta” -Mondadori- e il recente “La dieta per la vita” -Longanesi, vanta una notevole attività di ricerca anche all’estero – fra le collaborazioni quella con il Kimmel Cancer Center della Thomas Jefferson University di Philadelphia. Proprio l’attività come oncologa e i suoi studi nel campo della biologia molecolare l’hanno portata a interessarsi di alimentazione come strumento per tutelare la salute

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Il dibattito sulla sicurezza dell’olio di palma resta apertissimo tra quanti ne difendono la sua dignità di olio naturale e superiore ad altri oli vegetali per l’alto punto di fumo, e quanti gli imputano i peggiori mali dell’uomo e dell’ambiente. Da pochi mesi l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) ha fornito nuovi elementi, ma è utile fare un passo indietro per ricordare cosa sia l’olio di palma e dove scienza, industria e opinione pubblica si siano sinora posizionate in materia.

IL PRODOTTO VERGINE È PREZIOSO COME L’OLIO D’OLIVA.

Da non confondere con l’olio di palmisto, estratto dai semi e composto al 90 percento di grassi saturi, quello di palma deriva direttamente dalla spremitura del frutto dell’albero (principalmente Elaeis guineensis, ma anche Elaeis oleifera e Attalea maripa). Parliamo di quel frutto polposo, simile a una prugna, che cresce a caschi dalle palme e dal quale deriva l’olio dal colore rosso intenso, ricco di carotenoidi, antiossidanti e acidi grassi saturi che costituiscono circa il 50% dei grassi totali, seguiti da quelli monoinsaturi (39%) e polinsaturi (10%). Spremuto a freddo, dunque, l’olio di palma ha molte virtù potendo essere addirittura paragonato all’olio extravergine di oliva.

Per la ricchezza in grassi saturi, naturalmente solidi a temperatura ambiente, l’olio di palma si presta a innumerevoli usi, sostituendo il burro nella preparazione di biscotti, frolle, creme e altri alimenti. Anche la cosmesi si avvale largamente di questo elemento: si stima che sia presente in circa il 50% dei prodotti in vendita al supermercato. Proprio questa larga diffusione contribuisce a focalizzare l’attenzione, in particolare quella dei critici, sull’olio di palma. E’ scorretto attribuirgli danni peggiori di quelli apportati dall’impiego di altri oli vegetali nell’industria alimentare. Anzi, i grassi saturi prevalenti nell’olio di palma sono caratterizzati da una buona resistenza alle alte temperature. Ciò rende l’olio di palma in qualche modo “naturalmente” predisposto alla lavorazione industriale e più resistente degli oli polinsaturi alla raffinazione. Gli acidi grassi saturi hanno tutti gli atomi di carbonio impegnati in legami con l’idrogeno. Sono molecole stabili, tendenzialmente solide a temperatura ambiente e piuttosto resistenti al calore: non irrancidiscono durante la cottura.

I grassi polinsaturi, invece, avendo due o più atomi di carbonio non impegnati nel legame con l’idrogeno sono più fluidi e più “instabili”, pronti a sviluppare pericolosi radicali liberi in presenza di calore e ossigeno. I grassi saturi, inoltre, sono stati riabilitati nei confronti del rischio cardiovascolare: non sono loro i nemici del cuore, ma lo sono stati, per oltre 30 anni, i grassi polinsaturi idrogenati utilizzati al loro posto.

SOLO UN CAPO ESPIATORIO: TUTTI GLI OLI VEGETALI RAFFINATI SI OSSIDANO

Il boom dell’olio di palma nasce, dunque, dalla presa di coscienza positiva da parte dell’industria che fosse ormai improrogabile rinunciare all’uso di altri grassi, ben più pericolosi di quelli saturi. I grassi polinsaturi, ottimi se consumati crudi, divengono dannosissimi una volta raffinati ad alte temperature, specialmente se idrogenati con formazione di acidi grassi “trans”. Questi grassi, infatti, si inseriscono nelle membrane delle cellule e ne alterano la comunicazione, aumentano il colesterolo cattivo a scapito di quello buono, accrescono la tendenza delle cellule ad aggregarsi e quindi a formare trombi, causano stress ossidativo ed aumentano significativamente il rischio di tumori, malattie cardiovascolari e neurodegenerative.

Ben venga, insomma, che ce ne siamo progressivamente liberati in favore dell’olio di palma. Non si comprende la paranoia nei confronti dei grassi saturi dell’olio di palma. Se noi mangiamo più carboidrati di quelli che impieghiamo come energia, il nostro fegato li trasforma in acido palmitico, esattamente il grasso saturo contenuto dall’olio di palma: non dovremmo, dunque, preoccuparcene più di tanto. Per tutte queste ragioni descritte l’impiego di olio di palma risulta persino più valido di quello di altri oli vegetali: non illudiamoci, dunque, di compiere una scelta di salute preferendo prodotti a base, magari, di olio di girasole in luogo di altri contenenti olio di palma. Tutti gli oli vegetali, infatti, una volta raffinati – secondo processi non del tutto dissimili da quelli applicati al petrolio – condividono lo stesso, triste, destino di ossidazione. Per essere sicuri di ciò che mangiamo dovremmo, semplicemente, evitare prodotti – un esempio per tutti biscotti imbustati e merendine – a base di oli vegetali raffinati. Siano essi di girasole, di mais, di palma. Da consumatori consapevoli, dovremmo ricordare che ogni tipo di olio vegetale andrebbe consumato a crudo o scaldato a basse temperature. Dovremmo scartare sempre più i prodotti alimentari altamente lavorati, in favore invece di soffritti e fritture casalinghe, che si svolgono entro i 160 gradi, temperature nettamente inferiori a quelle utilizzate nella raffinazione degli oli, utilizzando il nostro prezioso olio extra vergine di oliva, ricco in polifenoli e vitamina E in grado di proteggere l’olio dall’ossidazione.

Non è un caso che l’EFSA, massima autorità europea per la sicurezza alimentare, abbia di recente accertato che nell’olio di palma sono presenti tre sostanze cancerogene dai nomi quasi impronunciabili (glicidiolo; 3-monocloropropandiolo – 3-MCPD;  2-monocloropropandiolo 2-MCPD). Si tratta di ‘contaminanti di processo’, cioè di sostanze che non compaiono naturalmente nel prodotto vergine, ma che vengono in esso sprigionate a seguito del “processo”, appunto, cioè della lavorazione industriale ad alte temperature. Questi contaminanti sono presenti anche negli altri oli vegetali, seppur in concentrazione inferiore perché derivano soprattutto dalla quota di acidi grassi saturi presenti nell’olio. Serve quindi una risposta dell’industria in termini d’impegno a correggere tali pericolose storture, senza per questo soccombere a pregiudizi di tipo ideologico o mediatico che conducano a condanne incondizionate e generalizzate.

LO STESSO DISCORSO VALE PER IL COSTO AMBIENTALE

La diffusione dell’olio di palma ha comportato alti costi ambientali da parte dei paesi produttori – Malesia e Indonesia in testa – disposti a sacrificare le loro foreste pluviali per lasciare posto alle palme: uno studio pubblicato sulla rivista Nature attesta che tra il 2000 e il 2012 l’Indonesia abbia perso oltre 60mila chilometri quadrati di foresta. Di questo passo l’ONU stima che entro il 2022 il Paese asiatico potrebbe restare quasi del tutto privo di aree forestali. Le ripercussioni di tale processo sono gravi: espropri forzosi di terre alle popolazioni locali, cambiamenti climatici, inquinamento atmosferico, estinzione di specie animali come l’orangotango e la tigre di Sumatra. Ma, anche in questo caso, ci limiteremmo a guardare il dito e non la luna impuntando all’olio di palma tutti i mali del pianeta. Se ci indigniamo meno per i danni altrettanto gravi causati dalle coltivazioni di mais e soia transgenici in Argentina probabilmente è solo perché ne siamo meno a conoscenza.

Benissimo, dunque, gli sforzi in atto da parte dell’industria più responsabile che – sulla spinta di lodevoli movimenti di opinione pubblica, stampa e organizzazioni non governative – ci permettono ora di attestare come almeno il 18% della produzione mondiale di olio di palma sia sostenibile per l’ambiente. Non possiamo però accontentarci: la consapevolezza di un consumatore attento è da sempre la leva più in grado di orientare comportamenti industriali e processi produttivi.

CONSUMATORI CONSAPEVOLI. E UN PO’ ILLUSI.

Il caso olio di palma è cartina tornasole di come l’industria e la comunicazione sappiano muovere le leve della nostra coscienza, sensibilità e attenzione. Chiediamoci come mai – seppur legittime e condivisibili – negli ultimi decenni si siano moltiplicate le campagne di contrasto all’olio di palma e non ad altri, innumerevoli, prodotti il cui potenziale di rischio è comparabile, se non superiore, ma molto meno conosciuto. Come, ad esempio, abbiamo già spiegato: diversi oli, stessi problemi. O, ancora, basti citare l’acrilammide, un altro contaminante di processo – anch’esso classificato cancerogeno dall’EFSA – sprigionato dai carboidrati cotti ad alte temperature e presente, quindi, praticamente ovunque: dal pane tostato alla fetta biscottata passando per grissini, cracker e patate fritte. Eppure il risalto socio-mediatico di questo problema, ben noto alla scienza, non è minimamente paragonabile a quello delle criticità dell’olio di palma divenute ormai – per fortuna, lo ribadiamo – di pubblico dominio. Come mai questa “disparità di trattamento” tra problemi simili per entità e rischio? Forse perché contrastare la produzione da parte di economie asiatiche emergenti di un prodotto a basso costo come l’olio di palma favorirebbe quella di oli vegetali più costosi – dal girasole al mais – prodotti dalle economie mature del Nord America?